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Consiglio di Stato

Adunanza Generale del 29 marzo 2001

Prot. Norm. n.124/2000

Gab. n.4/2001

Oggetto:

Presidenza del Consiglio dei Ministri

Redazione Testo Unico in materia di Espropriazione.

IL CONSIGLIO:

Vista la nota n. 1029/00/NSNP/P del 30 giugno 2000, con cui il Ministro per la funzione pubblica, in applicazione dell’articolo 7, comma 5, della legge 8 marzo 1999, n. 50, ha demandato al Consiglio di Stato la redazione dello schema di un testo unico in materia di espropriazione per pubblica utilità;

Visti i decreti del Presidente del Consiglio di Stato n. 49 del 26 settembre 2000, n. 55 del 19 ottobre 2000 e nn. 59 e 60 del 6 novembre 2000, con cui la composizione della Commissione speciale è stata integrata da quattro esperti in discipline non giuridiche, in applicazione dell’articolo 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50;

Visto il preavviso redatto dalla Commissione speciale nominata con decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 40 del 19 luglio 2000.

Uditi i relatori Consiglieri di Stato Luigi Maruotti, Rosanna De Nictolis e Francesco Caringella, estensori;

Considerato

Parte prima: premesse generali

1. Con la nota del 30 giugno 2000, il Ministro per la funzione pubblica ha rilevato che:

- «il Governo intende procedere alla semplificazione e unificazione dei vari procedimenti in materia di espropriazione per pubblica utilità, così come previsto nell’allegato 1 della legge 8 marzo 1999, n. 50, che ricomprende la materia delle espropriazioni tra quelle oggetto di riordino da effettuarsi mediante l’elaborazione di testi unici»;.

- si può «procedere contestualmente alla semplificazione delle procedure ed al riordino del relativo sistema normativo», in sede di redazione del testo unico previsto dall’allegato 1, parte I, n. 18, della legge 13 marzo 1997, n. 59;

- per «la complessità e la tecnicità della materia», il Governo ha ritenuto di far redigere lo schema del testo unico dal Consiglio di Stato, in applicazione dell’articolo 7, comma 5, della legge 8 marzo 1999, n. 50.

2. Con decreto del 12 luglio 2000, il Presidente del Consiglio di Stato ha nominato una Commissione speciale, con tre relatori, per la redazione dello schema del testo unico e della relazione esplicativa.

In applicazione dell’articolo 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, con i decreti n. 49 del 26 settembre 2000, n. 55 del 19 ottobre 2000 e nn. 59 e 60 del 6 novembre 2000, il Presidente del Consiglio di Stato ha integrato la composizione della Commissione speciale con quattro esperti in discipline non giuridiche (designati dal Presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, dalla conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome, dalla Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza» e dalla Associazione Nazionale Comuni Italiani).

Nel corso del mese di settembre 2000, i relatori hanno redatto distinti schemi di articolato, che sono stati coordinati nel corso del successivo mese di ottobre, sulla base delle risultanze delle adunanze della Commissione speciale.

Nei successivi mesi novembre 2000/febbraio 2001, sono state esaminate le proposte di emendamento, formulate dai componenti.

Al termine dei suoi lavori, la Commissione speciale ha redatto l’articolato sottoposto all’esame dell’Adunanza Generale.

3. Prima della esposizione del contenuto dell’articolato, vanno formulate alcune osservazioni preliminari, riguardanti:

a) le precedenti iniziative, non giunte a buon fine, volte a semplificare la ‘materia’ delle espropriazioni;

b) l’ambito entro il quale il testo unico possa unire, coordinare e modificare le disposizioni previgenti da sistemare.

Tali osservazioni risultano necessarie sia per evidenziare quale sia il quadro legislativo attualmente vigente, sia per individuare le specifiche finalità da perseguire mediante il disegno di riordino.

4. Considerata la progressiva stratificazione della normativa riguardante il procedimento d’esproprio, nel corso del tempo vi sono state varie iniziative, anche a livello parlamentare, per operarne la semplificazione.

L’articolo 2 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, ha previsto la delegificazione della materia, disponendo che con regolamento poteva disporsi la semplificazione del procedimento.

In applicazione dell’articolo 2, nella seduta del 23 marzo 1994 il Consiglio dei Ministri ha approvato in sede preliminare uno schema di regolamento.

La Seconda Sezione di questo Consiglio (con i pareri interlocutori n. 654 del 14 aprile 1994 e n. 654 del 30 novembre 1994) ha disposto adempimenti istruttori (ai quali il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha dato corso con la nota n. 81/ris.UL del 21 febbraio 1995), ed ha poi reso un ulteriore parere (n. 654/94 del 10 maggio 1995), cui non è stato dato seguito.

Successivamente, ai sensi dell’articolo 5 bis, comma 5, del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333 (come convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359), il Ministero dei lavori pubblici (con la nota n. 736UL dell’11 marzo 1993) ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sullo schema di regolamento recante i criteri e i requisiti per l’individuazione della edificabilità di fatto delle aree, ai fini della determinazione delle indennità di espropriazione.

A seguito di alcuni pareri interlocutori (della Seconda Sezione, di data 14 luglio e 3 novembre 1993, e dell’Adunanza Generale, di data 25 gennaio 1996) e della nomina di una Commissione speciale, l’Adunanza Generale di questo Consiglio (col parere n. 379/93 del 13 giugno 1996) ha redatto uno schema di articolato, cui non è stato dato seguito.

Le pressanti esigenze di risistemazione del quadro normativo, del resto, hanno costantemente riguardato anche la legislazione urbanistica, per adeguarla ai principi enunciati dalla Corte Costituzionale.

Nel corso di ogni legislatura repubblicana sono stati presentati vari disegni di legge, non approvati dal Parlamento (nel corso della XIII legislatura, v. il disegno di legge governativo n. 475, presentato al Senato ed esaminato, unitamente ai disegni nn. 91 e 191, dalla VIII Commissione permanente per l’ambiente, il territorio ed i lavori pubblici).

5. Quanto al riordino della materia dell’espropriazione, va premesso in termini generali che la legge n. 59 del 1997 ha disposto che la legge annuale di semplificazione preveda la delegificazione di procedimenti amministrativi ed il riordino normativo di vari settori dell’ordinamento (v. l’articolo 20, comma 11, per il quale, «con disegno di legge il Governo propone annualmente al Parlamento le norme di delega ovvero di delegificazione necessarie alla compilazione di testi unici legislativi o regolamentari con particolare riferimento alle materie interessate dalla attuazione della presente legge»).

5.1. L’obiettivo della semplificazione normativa va perseguito:

- con la delegificazione (prevista dall’articolo 20 della legge n. 59 del 1997), cioè con l’emanazione di regolamenti di semplificazione dei procedimenti amministrativi, con effetto delegificante rispetto alla fonte originaria legislativa;

- con la redazione dei testi unici (previsti dagli articoli 7 e 8 della legge n. 50 del 1999), con i quali può essere effettuata una "codificazione per settori" delle disposizioni, anche di rango diverso, stratificatesi nel corso degli anni.

La delegificazione evita l’eccessiva legificazione delle regole riguardanti la pubblica amministrazione, mentre col riordino normativo si fronteggia il fenomeno del "caos normativo", attraverso la raccolta delle norme di grado secondario, relative ai procedimenti già delegificati, e delle disposizioni legislative rimaste estranee a tale fenomeno.

5.2. Il sistema della legge n. 59 del 1997 è stato innovato sotto due aspetti dalla legge n. 50 del 1999.

In primo luogo, essa ha fissato un termine [la data del 31 dicembre 2001, prorogata al 31 dicembre 2002 dall’articolo 1, comma 6, lett. e), della legge n. 340 del 2000] entro il quale va conclusa la fase di semplificazione dell’ordinamento.

L’individuazione del carattere perentorio o acceleratorio di tale termine dipende strettamente dalla questione (su cui si tornerà in seguito) riguardante la natura -legislativa, regolamentare o mista - dei testi unici.

Infatti, mentre per i decreti legislativi non si dubita della natura perentoria del termine fissato nella legge di delega, per l’esercizio del potere regolamentare più volte questo Consiglio ha ritenuto che al termine non vada riconosciuto carattere perentorio, in considerazione dell’ordinario potere regolamentare del Governo, previsto dall’articolo 17 della legge n. 400 del 1988.

In secondo luogo, la legge n. 50 del 1999 ha previsto non solo ulteriori norme di delega o di delegificazione, ma anche una nuova procedura per la redazione dei testi unici.

5.3. Tale procedura si articola in due fasi, di cui la prima è di programmazione e la seconda di attuazione.

5.3.1. L’articolo 7, comma 1, riguarda la prima fase e dispone che il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, adotta il programma di riordino delle norme legislative e regolamentari, per le materie ivi indicate (secondo gli indirizzi previamente definiti entro il 30 giugno 1999 dalle Camere).

La programmazione va definita dal Governo e dalle Camere in rapporto di stretta collaborazione fra loro: il Parlamento definisce gli indirizzi, ossia i criteri ed i metodi di razionalizzazione e di consolidamento delle normative vigenti, in base ai quali il Governo adotta il programma di riordino, del quale è responsabile.

La Sezione normativa di questo Consiglio (col parere del 18 settembre 2000, n. 147/2000, riguardante il testo unico delle disposizioni in materia di documentazione amministrativa, approvato col d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445) ha già chiarito che la mancata approvazione del programma non impedisce la fase di attuazione di redazione dei testi unici, poiché il varo del programma attiene alla sfera politica e non incide sulla possibilità di avviare la fase di redazione del testo unico (compiutamente disciplinata dalla legge, sulla base di un iter che valorizza adeguatamente il ruolo delle Camere).

5.3.2. Quanto alla fase di attuazione, l’articolo 7, comma 2, della legge n. 50 del 1999 ha previsto che il Governo concluda la procedura diretta all’adozione di ciascun testo unico entro il termine del 31 dicembre 2001 (poi prorogato al 31 dicembre 2002 dall’articolo 1, comma 6, della legge n. 340 del 2000).

Il relativo procedimento, in via generale, è disciplinato dall’articolo 7, comma 4:

- lo schema preliminare del testo unico è deliberato dal Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio di Stato, ed è trasmesso alle Commissioni parlamentari competenti per materia;

- il testo unico è poi emanato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro della funzione pubblica, previa ulteriore deliberazione del Consiglio dei Ministri, che deve tenere conto del parere (obbligatorio, ma non vincolante) espresso dalle Commissioni parlamentari.

Pertanto, le Commissioni parlamentari svolgono un importante "ruolo di cerniera", poiché (anche sulla base delle valutazioni tecniche del Consiglio di Stato) sullo schema preliminare formulano osservazioni, delle quali va «tenuto conto» in sede di redazione del testo finale.

5.4. Nell’ambito di tale generale tendenza alla razionalizzazione del quadro normativo, il testo unico sull’espropriazione è stato previsto:

- dall’articolo 20, comma 8, e dal n. 18 dell’allegato 1 alla legge n. 59 del 1997 (che si è riferito al «procedimento di espropriazione per causa di pubblica utilità»);

- dall’articolo 7, comma 1, lettera c), e dal n. 3 dell’allegato alla legge n. 50 del 1999 (che ha previsto la redazione di un testo unico in materia di «urbanistica ed espropriazione»);

- dall’articolo, comma 4, lettera f), della legge n. 340 del 2000 (che, al n. 18 dell’allegato 1 alla legge n. 59 del 1997, ha aggiunto le parole «e le altre procedure connesse»).

Da tali disposizioni, si evince che il legislatore ha attribuito un ruolo centrale all’esigenza di una maggiore chiarezza ed organicità delle fonti normative in materia espropriativa.

In attuazione dell’articolo 7, comma 5, della legge n. 50 del 1999, per la sua particolarissima complessità, il Governo ha attribuito al Consiglio di Stato la stessa predisposizione dell’articolato normativo.

Tale comma prevede un procedimento di approvazione del testo unico parzialmente diverso da quello sopra esposto in termini generali, poiché sullo schema redatto dal Consiglio di Stato non va acquisito il suo parere.

In base alla ratio della norma (che intende evitare un superfluo secondo esame del Consiglio di Stato sul testo che esso stesso ha predisposto), si deve ritenere che, qualora nel successivo iter siano apportate significative modifiche, vada acquisito il parere del Consiglio di Stato, come previsto in termini generali dall’articolo 7, comma 4, della legge n. 50 del 1999.

5.5. Il Governo ha ritenuto di far redigere dal Consiglio di Stato il testo unico concernente la sola espropriazione per pubblica utilità.

Tale scelta, che ha agevolato la redazione dell’articolato, non ha impedito il rilievo di alcune questioni, derivanti dalle interferenze di ordine normativo e concettuale, intercorrenti tra l’urbanistica e l’espropriazione.

Come meglio si evidenzierà in seguito, nel testo unico sono state doverosamente inserite le norme (di natura anche ‘urbanistica’) direttamente incidenti sul procedimento di esproprio (si pensi alla disciplina dei vincoli preordinati all’esproprio contenuti negli atti di pianificazione, sotto il duplice profilo della loro durata e dell’indennizzabilità in caso di reiterazione).

D’altra parte, il riferimento ad un testo unico della materia «urbanistica ed espropriazione»,

nell’allegato 3 della legge n. 50 del 1999, ha indotto a redigere l’articolato con riferimento ai soli fenomeni espropriativi di matrice urbanistica (ossia alle espropriazioni immobiliari strumentali alla realizzazione di interventi ed opere pubbliche e di pubblica utilità) , con esclusione delle espropriazioni di beni mobili o non riguardanti la trasformazione del territorio.

5.6. Quanto alla collocazione del testo unico sull’espropriazione nel sistema delle fonti, rileva ancora l’articolo 7, comma 2, della legge n. 50 del 1999.

Esso ha previsto la redazione di un testo unico "innovativo", come si desume inequivocabilmente dai principi e dai criteri direttivi da esso fissati, dalla previsione del termine finale per la sua emanazione e dalla predisposizione di una procedura articolata (che evidentemente risulterebbe superflua in relazione ad un testo unico "compilativo").

L’articolo 7, nel disporre la delegificazione degli aspetti procedimentali ed organizzativi, ha consentito un alto tasso di innovatività: si possono snellire i procedimenti e ridurre i tempi sovrabbondanti, eliminare fasi inutili, sopprimere organi e fasi endoprocedimentali superflue.

Quanto ai profili sostanziali, il testo unico può operare la selezione e la riorganizzazione del vigente quadro normativo.

L’Adunanza Generale (col parere dell’8 giugno 2000, riguardante il testo unico sugli enti locali) ha osservato che:

- la nozione di «coordinamento» può «consentire e determinare un più incisivo intervento sul contenuto delle norme preesistenti, al fine di rendere il tessuto normativo su cui si va ad incidere non solo più coerente nel suo complesso, ma anche in sintonia con l’evolversi dei principi generali, con la cultura giuridica, con il ‘diritto vivente’ creato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, con l’evolversi dei valori complessivi dell’ordinamento» (sicché il testo unico deve prendere atto di abrogazioni tacite ed esprimere in norme gli indirizzi giurisprudenziali);

- «tuttavia, le formule della unificazione e del coordinamento contenute nella legge di delega non possono stravolgere la funzione del testo unico, che è pur sempre quella di facilitare l’applicazione delle leggi preesistenti, evitando duplicazioni, prendendo atto di abrogazioni anche tacite, valorizzando univoche soluzioni interpretative divenute diritto vivente, senza innovare alla loro sostanza, operazione, questa, che deve passare attraverso il vaglio e la decisione del Parlamento attraverso gli strumenti legislativi diretti ed indiretti (artt. 70, 76 e 77 Cost.)».

Pertanto, l’articolato è stato redatto in coerenza con la ricordata distinzione tra norme procedimentali e disposizioni sostanziali e considerando le peculiarità della materia in esame (approfondite al successivo punto 6).

Si è attuata una notevole delegificazione delle norme procedimentali, con una riscrittura fortemente innovativa, in termini di semplificazione e razionalizzazione (anche evitando, per quanto possibile, richiami ad altri testi normativi): tale carattere innovativo ha indotto a non redigere la ‘tavola di corrispondenza dei riferimenti previgenti al testo unico’ (invece allegata al testo unico delle disposizioni in materia di documentazione amministrativa, n..445 del 2000), poiché le disposizioni dell’articolato sostituiscono quelle abrogate, indicate nell’articolo 58.

E’ stato previsto un solo ‘tipo’ di procedimento espropriativo, con la reductio ad unitatem della pluralità dei modelli, contrastanti tra loro, dovuti alla frammentazione ed alla successione delle norme nel tempo.

Si è altresì riconosciuta in materia la competenza della autorità che realizza l’opera pubblica o di pubblica utilità.

In relazione ai profili sostanziali della materia espropriativa, e in particolare per i criteri di computo dell’indennità, invece, vi è stata la ricognizione e la razionalizzazione dell’assetto positivo, pur se esso presenta alcuni limiti, non di rado segnalati anche dalla giurisprudenza.

L’articolato contiene anche le modifiche necessarie per garantirne la coerenza logica e sistematica e la semplificazione della terminologia.

5.7. Va ora esaminata la natura giuridica del testo unico, sotto il profilo della sua collocazione nel sistema delle fonti.

Le relative questioni sono sorte dal testo originario dell’articolo 7 della legge n. 50 del 1999, che ha previsto, oltre alla delegificazione, la confluenza in un unico testo di tutte le norme (primarie e secondarie) che regolano un settore.

Ad una prima lettura, poteva sostenersi che l’articolo 7 avesse attribuito una delega legislativa per la compilazione di un testo unico in toto legislativo (e pertanto ascrivibile nel novero degli atti aventi forza di legge), ovvero che esso avesse previsto un ‘macro regolamento di delegificazione’ (contenente norme in origine regolamentari e norme che tali diventano per effetto della delegificazione che il regolamento stesso provvede ad attuare).

Al riguardo, la Sezione normativa (col parere 18 settembre 2000, n. 147/2000, riguardante il testo unico delle disposizioni in materia di documentazione amministrativa) ha chiarito che:

- l’articolo 7, comma 2 (per il quale il testo unico contiene «in un unico contesto e con le opportune differenziazioni, le disposizioni legislative e regolamentari»), ha previsto la redazione di un testo ‘misto’, nell’esercizio della potestà legislativa delegata (per la parte relativa al coordinamento delle disposizioni contenute in fonti primarie) e di quella regolamentare (per la parte riguardante le fonti secondarie);

- «secondo precise indicazioni emerse in sede parlamentare nel corso dell’esame della relazione governativa sul programma di riordino», vanno redatti «tre diversi atti normativi, da emanare contestualmente: due di questi atti (un decreto legislativo ed un regolamento di delegificazione) producono, ciascuno per la propria parte ed al proprio livello, gli effetti normativi di carattere costitutivo, che il terzo atto (il testo unico) riconosce e riproduce contestualmente».

Il testo unico, dunque, si caratterizza per la coesistenza di una parte legislativa e di una regolamentare, che restano diverse sotto il profilo sostanziale nella gerarchia delle fonti.

Tale ricostruzione (che implica la natura perentoria del termine del 31 dicembre 2002, entro il quale possono essere emanati i decreti legislativi innovativi) ora si basa anche sul dato testuale dell’articolo 1 della legge n. 340 del 2000 (che ha modificato l’articolo 7 della legge n. 50 del 1999 ed ha previsto che «ciascun testo unico, aggiornato in base alle leggi di semplificazione annuali, comprende le disposizioni contenute in un decreto legislativo ed in un regolamento che il governo emana ai sensi dell’articolo 14 e dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400»).

Pertanto, come è avvenuto per il testo unico delle disposizioni in materia di documentazione amministrativa (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 20 febbraio 2001), anche per la redazione del testo unico dell’esproprio sono stati redatti tre testi (il primo contenente norme di rango legislativo: Testo B; il secondo contenente norme di rango regolamentare: Testo C; il terzo che riproduce contestualmente i primi due: Testo A).

Tale soluzione non fa di per sé sorgere questioni di legittimità costituzionale. La Corte Costituzionale, anche se non ha ancora affrontato ex professo la questione, ha ritenuto impregiudicata «ogni valutazione circa l’eventualità di una disposizione composta da elementi risultanti da atti legislativi o aventi valore di legge e da atti aventi valore secondario» (Corte Cost., 21 ottobre 1998, n. 354, in sede di esame dell’articolo 120 del decreto legislativo n. 285 del 1992, in parte delegificato dall’articolo 5 del d.P.R. 19 aprile 1995 n. 575).

In tale contesto, la Sezione normativa (col parere 10 gennaio 2000, n. 239) ha già evidenziato, sotto il profilo della buona tecnica redazionale, la necessità di evitare interventi innovativi che generino "disposizioni miste".

Questioni problematiche, infatti, possono derivare solo dalla produzione di una disposizione composta da parti di diverso rango: è invece ammissibile una fonte che racchiuda singole norme, tra loro autonome, di grado diverso.

Pertanto, nella redazione dell’articolato, si sono evitate commistioni fra norme di rango diverso: proprio per questo il legislatore delegante ha prescritto le «opportune evidenziazioni» (e, quindi, l’autonomia) delle disposizioni legislative e regolamentari accorpate «in un unico contesto».

In considerazione della "caratterizzazione mista" del testo unico da redigere sull’esproprio, nei tre testi dell’articolato è stata evidenziata di volta in volta (con l’uso rispettivamente della lettera L o R) la natura legislativa o regolamentare dei singoli commi ed articoli.

5.8. Quanto ai rapporti tra il testo unico e le altre fonti normative, all’articolo 1, comma 4, è stato riprodotto il principio contenuto nell’articolo 7, comma 6, della legge n. 50 del 1999 (per il quale le disposizioni di un testo unico non possono essere «abrogate, derogate, sospese o comunque modificate se non in modo esplicito, mediante l’indicazione esplicita delle fonti da abrogare, derogare sospendere o modificare»).

Esso non incide sul rango delle norme del testo unico, in quanto mira a disciplinare ed a rendere più consapevole il successivo esercizio del potere normativo: l’istituto della abrogazione implicita non scompare dall’ordinamento (come ha osservato l’Adunanza Generale, col citato parere dell’8 giugno 2000).

La norma vuole inoltre consentire che le disposizioni successive, in base al principio di conservazione, siano interpretate in base al criterio del coordinamento e non dell’abrogazione della disposizione precedente.

Nella stesura dell’articolato, sono state anche valutate le esigenze delle autonomie (si rinvia all’esame dell’articolo 5).

6. Passando all’esame delle specificità della ‘materia’ espropriativa, si può affermare che essa nel corso del tempo ha assunto un carattere peculiare, rispetto ad altre che pure sono state disciplinate da un notevolissimo numero di fonti normative.

Altri settori, pur complessi (ad esempio, le altre materie per le quali è stato previsto il riordino di cui all’articolo 7, comma 1, della legge n. 50 del 1999, nonché l’ordinamento degli enti locali e sulla documentazione amministrativa, e le disposizioni sui beni culturali e ambientali, rispettivamente, ora regolati dai testi unici n. 267 e 445 del 2000 e n. 490 del 1999), sono stati disciplinati da fonti normative diverse e stratificatesi nel tempo, che però, nel loro insieme, hanno progressivamente fatto parte di un sistema organico.

Invece, la materia dell’espropriazione (anche in considerazione dei suoi stretti rapporti con l’urbanistica e con i sistemi di realizzazione delle opere pubbliche) si caratterizza non solo per la notevole diversità delle fonti normative, ma soprattutto per l’affermarsi di una disciplina sostanzialmente episodica, che, pur non avendo abrogato la legge 25 giugno 1865, n. 2359 (ancora comunemente definita «l’unica legge generale sulla materia»), ha dettato le più variegate regole sulle competenze, sui procedimenti da seguire e sulla determinazione dell’importo spettante quale indennità di espropriazione.

Anche le più rilevanti riforme, che hanno inciso sul testo della legge n. 2359 del 1865 a seguito della istituzione delle Regioni a statuto ordinario (v. la legge 22 ottobre 1971, n. 865; il decreto legge 2 maggio 1974, n. 115, come convertito con la legge 27 giugno 1974, n. 247; la legge 28 gennaio 1977 n. 10), più che dare luogo ad un alternativo o parziale sistema compiuto, hanno ancor più frammentato la disciplina.

6.1. Le cause di questa frammentazione sono molteplici.

Alcune sono sostanzialmente inevitabili, in quanto attengono ai rapporti tra l’ordinamento statale e quelli regionali.

Le altre, invece, costituiscono la conseguenza di una legislazione statale episodica e ‘alluvionale’, che (specialmente durante l’ultimo secolo) per gli aspetti sostanziali e procedimentali di volta in volta ha tenuto conto:

- di particolari situazioni di urgenza, di congiuntura o di calamità naturale;

- delle esigenze di coordinamento con la programmazione delle opere pubbliche;

- di considerazioni di natura finanziaria, in relazione alle risorse economiche disponibili in un determinato momento storico;

- delle esigenze di singole Amministrazioni o di determinate città, in relazione a singole categorie di opere pubbliche o di pubblica utilità.

In tal modo, si sono sovrapposte normative derogatorie o speciali, che talvolta non hanno neppure precisato i rapporti con la originaria legge n 2359 del 1865 e con le successive leggi aventi più o meno carattere generale.

La normativa applicabile inoltre è stata poi diversificata a seconda se gli espropri siano disposti in favore di soggetti pubblici o privati.

E’ oramai opinione comune che la normativa vigente non preveda più un «modello unico» di espropriazione, poiché vi sono diversi ‘tipi’, disciplinati dalle molteplici leggi speciali contemporaneamente in vigore, da integrare per le parti non previste dalle leggi generali, tanto che non è agevole «individuare un modello comune», nella attuale «disastrata» situazione di «cronica provvisorietà».

Le originarie disposizioni della legge n. 2359 del 1865, anche se per lo più non sono state modificate espressamente, hanno quindi perso, in tutto o in parte, il loro originario ambito di applicazione, a seguito dell’entrata in vigore di normative a volte generali e a volte di settore, che hanno fatto costantemente anche sorgere questioni sulla disciplina applicabile per gli aspetti non previsti dalle leggi sopravvenute.

6.2. Il quadro normativo, del resto, è reso più complesso dalle strette connessioni intercorrenti:

a) tra le esigenze del procedimento espropriativo e quelle della programmazione, del finanziamento e della realizzazione delle opere pubbliche;

b) tra l’«urbanistica» e l’«espropriazione».

Quanto alle esigenze di cui alla lettera a), basta richiamare:

- l’articolata disciplina riguardante la dichiarazione di indifferibilità e di urgenza e l’ordinanza di occupazione d’urgenza, basata sulla considerazione che l’opera pubblica o di pubblica utilità va realizzata celermente dopo l’approvazione del progetto e prima che sia emanato il decreto di esproprio, sia per soddisfare le esigenze della collettività con l’opera, sia per utilizzare prontamente le risorse resesi disponibili (con influssi benefici sulla occupazione dei lavoratori);

- la normativa sulla programmazione, di cui all’articolo 14 della legge n. 109 del 1994 (e successive modificazioni), che mira a razionalizzare le spese e ad evitare l’episodicità delle scelte.

Quanto ai rapporti tra l’urbanistica e l’espropriazione, questo Consiglio, a seguito dell’entrata in vigore della legge 17 agosto 1942, n. 1150, ha affermato il fondamentale principio - che ancora oggi ispira l’ordinamento - per il quale il procedimento espropriativo presuppone la sua coerenza con le previsioni del piano urbanistico.

In altri termini, a differenza di quanto ritenevano i compilatori della legge n. 2359 del 1865, il procedimento espropriativo oramai non ha una rilevanza giuridica ex se, ma costituisce una fase indefettibile per l’attuazione delle previsioni del piano urbanistico e per un ordinato assetto del territorio.

Tale stretta connessione non solo è stata rimarcata dall’articolo 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, come modificato dalla legge n. 205 del 2000 (che, ai fini della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ha disposto che nell’ambito dell’urbanistica rientrano anche gli atti ed i comportamenti finalizzati alla attuazione dei piani urbanistici), ma è evincibile dalla normativa e dalle sentenze della Corte Costituzionale sui presupposti necessari perché possa esservi il procedimento espropriativo.

6.3. In materia, il quadro normativo va valutato alla luce delle sentenze della Corte Costituzionale, la quale:

- ha dichiarato l’incostituzionalità sia di norme riguardanti i rapporti tra la pianificazione urbanistica ed il procedimento espropriativo (sent. n. 55 del 1968), sia di norme riguardanti la quantificazione della indennità di espropriazione (sent. n. 5 del 1980);

- ha affermato il principio della spettanza di un indennizzo nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio (sent. n. 179 del 1999).

E’ infatti noto che le citate sentenze della Corte Costituzionale n. 55 del 1968 e n. 5 del 1980 hanno affermato rilevanti principi in materia, che, pur essendo stati oggetto di opposte letture della dottrina, hanno fatto sorgere la communis opinio per cui si sia tuttora in una fase transitoria, nel senso che anche per la materia urbanistica deve esservi un complessivo riordino, che adegui pienamente il sistema ai principi costituzionali.

La stessa normativa sull’indennità di espropriazione ha attualmente un rilievo dichiaratamente provvisorio: l’articolo 5 bis del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, come convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, ha previsto la sua applicabilità «fino all’emanazione di un’organica disciplina per tutte le espropriazioni preordinate alla realizzazione di opere o interventi da parte o per conto dello Stato, delle regioni» e degli altri enti pubblici o di diritto pubblico.

7. Le notevoli difficoltà di determinare la stessa normativa in concreto applicabile in ordine alle competenze ed agli aspetti procedimentali o sostanziali (aggravatesi a seguito delle dichiarazioni di incostituzionalità di norme che erano state già poste a base dell’azione amministrativa e della diretta applicabilità della normativa generale sul procedimento, di cui alla legge 8 agosto 1990, n. 241) hanno condotto al proliferare di un vastissimo contenzioso innanzi ai giudici ordinari ed ai giudici amministrativi.

Tale contenzioso ha riguardato tutti gli aspetti del procedimento espropriativo:

a) la normativa applicabile sul piano procedimentale, anche nei suoi rapporti con la pianificazione urbanistica;

b) le implicazioni che derivano dalle sentenze della Corte Costituzionale, per gli aspetti procedimentali e per la quantificazione della indennità di esproprio;

c) la determinazione della indennità di espropriazione, non solo per l’aspetto concernente la valutazione del bene espropriato, ma per la stessa individuazione della normativa applicabile e la sua conformità alla Costituzione;

d) la normativa riguardante il procedimento di occupazione d’urgenza e quella riguardante la determinazione della relativa indennità.

Per tale contenzioso, in passato si è applicato il criterio tradizionale e generale di riparto della giurisdizione, basato sulla distinzione tra diritto ed interesse legittimo.

Si sono così verificate rilevanti oscillazioni giurisprudenziali:

- sulla determinazione del giudice avente giurisdizione (si pensi alle divergenze di vedute tra le Sezioni Unite e il Consiglio di Stato circa il vizio ravvisabile ed i principi processuali applicabili, nel caso di emanazione del decreto di espropriazione in violazione dell’articolo 13 della legge n. 2359 del 1865);

- sulla interpretazione da dare alle norme e sulla effettiva sussistenza della loro violazione (si pensi alle divergenze riguardanti la normativa sulla occupazione d’urgenza, in relazione alla competenza e alla decadenza degli effetti degli atti);

- sulle conseguenze della realizzazione di un’opera pubblica in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità.

Per quest’ultimo aspetto, è noto che la Corte di Cassazione ha elaborato l’istituto della ‘occupazione appropriativa’ o ‘espropriazione sostanziale’ (nonché quello, più recente, della ‘occupazione usurpativa’).

Superando il proprio secolare orientamento (sulla applicabilità dell’articolo 4 dell’allegato E della legge di unificazione del 1865 anche nei giudizi intentati dal proprietario che fosse stato leso da un illecito), la Corte di Cassazione ha in tal modo affermato che l’Amministrazione, in base alla analogia iuris, acquista a titolo originario l’area resasi necessaria per realizzare l’opera pubblica.

Tale istituto ha dato luogo a notevoli discussioni circa i suoi presupposti applicativi e circa la sua compatibilità col principio di legalità, sancito dagli articoli 42 e 97 della Costituzione.

Sul punto, va segnalata la sentenza della Sez. II della Corte Europea dei diritti dell’uomo (30 maggio 2000, ric. 31524/96), da cui si evince che l’istituto in quanto tale si pone in contrasto con l’articolo 1 del protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Il riordino della materia, pertanto, deve tenere conto anche dell’esigenza di evitare che permanga tale contrasto.

8. Constatate tali notevoli difficoltà di ricostruzione della normativa, il legislatore da tempo ha previsto che debba esservi una sua semplificazione: la disciplina va resa più chiara e conoscibile da parte degli operatori, siano essi i pubblici funzionari, i giudici, i privati nei cui confronti si svolge l’azione amministrativa.

Gli stessi operatori (come ha segnalato la nota di data 30 giugno 2000 del Ministro per la funzione pubblica) hanno auspicato un «celere riordino del settore».

Già si è segnalato, al precedente punto 4, che l’articolo 2 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, aveva delegificato la materia, consentendo che vi fosse la semplificazione sulla base di regolamenti governativi.

8.1. Nella consapevolezza che anche la formazione di una stabile giurisprudenza sulle regole applicabili in materia può agevolare una migliore qualità della azione amministrativa, una prima notevole riforma ha riguardato le questioni di giurisdizione.

L’articolo 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998 (nel testo sostituito dalla legge n. 205 del 2000) ha disposto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, che nella materia espropriativa (rientrante, ai fini della giurisdizione, nell’ambito della materia dell’urbanistica, come definita dal richiamato articolo 34) conosce di tutti gli atti, i provvedimenti ed i comportamenti (anche illeciti) di ogni pubblica amministrazione o soggetto ad essa equiparato.

E’ pertanto prevedibile che si formerà una più stabile giurisprudenza, circa le regole dell’azione amministrativa e le conseguenze delle loro violazioni.

8.2. Una seconda notevole riforma è stata prevista dal sopra rammentato articolo 7 della legge n. 50 del 1999 (modificato dall’articolo 1, comma 4, lett. e), della legge n. 340 del 2000), che ha previsto l’emanazione di un testo unico per l’espropriazione, non meramente ricognitivo della normativa vigente e semplificativo dei procedimenti.

Tale scelta del legislatore risulta quanto mai opportuna, perché la contemporanea vigenza di leggi generali e speciali (per ogni aspetto del procedimento amministrativo) avrebbe reso illogica la previsione di un testo unico meramente compilativo, avente rilievo solo di facilitazione della conoscenza della normativa.

Lo stesso legislatore ha manifestato la consapevolezza che per la materia espropriativa la semplificazione può aversi solo se si attua una radicale tabula rasa, cioè superando, per quanto possibile, la precedente frammentaria normativa e disciplinando ex novo il procedimento, in modo unitario e uniforme, anche se ispirato ai fondamentali principi riconducibili alla legge n. 2359 del 1865 ed alle leggi successive, tra cui quella urbanistica n. 1150 del 1942.

Anche in materia processuale sono attualmente in vigore diverse regole quanto alla opposizione alla stima (proponibile al tribunale civile, in base alla legge n. 2359 del 1865, e alla corte d’appello, in base alla legge n. 865 del 1971), il che ribadisce che per la riduzione ad unità della materia il testo unico acquista tale nome perché deve costituire il ‘codice’ unitario di riferimento.

Il riordino si è dunque reso necessario, per razionalizzare e semplificare il quadro normativo, per rendere l’azione amministrativa più certa e coerente col principio di legalità, per ridurre il contenzioso.

Del resto, una ‘naturale’ caratteristica di un testo unico, che miri a regolare organicamente un settore, è anche quella di specificare la discipli na di istituti compatibili col sistema (si pensi all’articolo 5 del testo unico degli enti locali approvato col regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, che disciplinò organicamente, per la prima volta, l’istituto del silenzio sul ricorso gerarchico)..

Parte seconda: considerazioni sull’esigenza di coordinamento tra la normativa urbanistica e quella sull’espropriazione

9. La redazione di un testo unico innovativo può certo contribuire, ed anche in misura notevole, alla semplificazione della normativa vigente in materia di espropriazione, alla sua più facile conoscibilità ed applicazione e alla conseguente riduzione del contenzioso.

Peraltro, va rimarcato che dalla attuale disciplina urbanistica derivano alcune delle difficoltà che incontrano le Amministrazioni nel corso dei procedimenti espropriativi, anche per la conclusione di accordi di cessione delle aree da utilizzare.

La nota del Ministro per la funzione pubblica, di data 30 giugno 2000, ha conferito al Consiglio di Stato l’incarico di redigere il testo unico per la sola materia della espropriazione, e non anche per quella dell’urbanistica.

Tuttavia, è doveroso segnalare che una maggiore qualità dell’azione amministrativa nella materia espropriativa può derivare da una complessiva riforma della normativa urbanistica, che tenga conto dei principi costituzionali, come interpretati dalla Corte Costituzionale, e dell’esigenza di evitare, per quanto più è possibile, che le scelte urbanistiche si basino su ingiustificate disparità di trattamento, destinate ad agg ravarsi nel caso di espropriazione.

Giova, al riguardo, segnalare la portata essenziale delle sentenze della Corte Costituzionale, concernenti:

a) il rapporto intercorrente tra la pianificazione urbanistica e il procedimento espropriativo;

b) l’entità della indennità di espropriazione.

L’esame di tali sentenze consente di trarre principi generali, entro cui il legislatore, nella sua discrezionalità, può disporre la riforma.

10. Quanto al rapporto intercorrente tra la pianificazione urbanistica ed il procedimento espropriativo, la Corte Costituzionale ha pronunciato le fondamentali sentenze 14 maggio 1966, n. 38, e 29 maggio 1968, n. 55, riguardanti i medesimi giudizi pendenti presso il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana.

10.1. Nell’ambito di alcuni giudizi, proposti da alcuni proprietari di aree (sulle quali il piano regolatore generale aveva indicato i caratteri e i vincoli di zona da osservare nell'edificazione, nonché le aree destinate a formare spazi di uso pubblico e di quelle riservate a verde pubblico, a verde privato, a verde agricolo o ad edificazione di interesse pubblico), il Consiglio di giustizia ha sollevato alcune questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 7, numeri 2, 3 e 4, della legge n. 1150 del 1942, e cioè delle norme attributive del potere di imporre vincoli di qualsiasi natura sulla proprietà privata e, tra questi, quelli preordinati all’esproprio.

Le questioni in un primo momento sono state dichiarate in parte infondate dalla Corte Costituzionale (con la sentenza 14 maggio 1966, n. 38), che ha ritenuto non violato il principio costituzionale della riserva di legge sancita dall’articolo 42, secondo comma, della Costituzione, poiché l’articolo 7, n. 2, della legge n. 1150 del 1942 ha sufficientemente determinato i vincoli di zona e i vincoli riguardanti la costruzione dei fabbricati, nonché i controlli a tutela della proprietà privata.

In tal modo, la Corte ha rilevato che la legge ben può demandare alle previsioni urbanistiche il potere di conformare la proprietà privata.

Con l’ordinanza di pari data n. 39 del 1966, la Corte ha ordinato la restituzione degli atti al Consiglio di giustizia, perché fossero specificati i vincoli oggetto dei ricorsi giurisdizionali.

Con una successiva ordinanza, il Consiglio di giustizia ha prospettato la questione con riferimento ai vincoli alle aree destinate a verde, ad edificio scolastico ed alla conservazione di fabbricati monumentali, rilevando che sarebbe stato dovuto un indennizzo espropriativo «soltanto quando la destinazione prevista dal piano regolatore generale venga in seguito di tempo, attraverso piani regolatori particolareggiati, attuata dal Comune, che peraltro non sarebbe vincolato al riguardo a termini di sorta».

Per il Consiglio di giustizia, pertanto, «dall’approvazione del piano regolatore generale deriverebbe immediatamente una compressione del diritto di proprietà».

La questione sollevata dal Consiglio di giustizia amministrativa è stata ritenuta fondata dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 29 maggio 1968, n. 55, la quale ha dichiarato l’incostituzionalità «dei numeri 2, 3, 4 dell’articolo 7 e dell’articolo 40 stessa legge, nella parte in cui non prevedono un indennizzo per l’imposizione di limitazioni operanti immediatamente e a tempo indeterminato nei confronti dei diritti reali, quando le limitazioni stesse abbiano contenuto espropriativo nei sensi indicati in motivazione».

10.2. La concreta portata della sentenza della Corte Costituzionale va determinata tenendo conto delle specifiche questioni sollevate dal Consiglio di giustizia amministrativa, nonché delle argomentazioni poste a base dalla Corte nella sentenza di incostituzionalità.

La Corte Costituzionale ha affermato che:

a) nel sistema risultante dall’articolo 7 della legge n. 1150 del 1942, «viene a determinarsi, salvo per quanto riguarda quei vincoli che sono ordinati al mantenimento di destinazioni attuali della proprietà, un distacco tra l’operatività immediata dei vincoli previsti dal piano regolatore generale ed il conseguimento del risultato finale»;

b) infatti, il raggiungimento del risultato finale (il trasferimento della proprietà, per le aree da destinare a opere e usi pubblici, ovvero la trasformazione ad opera dei proprietari di un loro bene) «è dilazionato a data incerta e imprevista e imprevedibile nel suo verificarsi (quella in cui potranno essere eventualmente approvati e attuati i piani particolareggiati)»;

c) la legge per i trasferimenti coattivi «non fissa alcun termine decorrente dall'entrata in vigore del piano generale, non contempla alcun indennizzo per il vincolo di immodificabilità cui il proprietario è tenuto a sottostare per il tempo, illimitato, durante il quale rimarrà in attesa del trasferimento»;

d) il terzo comma dell’articolo 42 della Costituzione si applica non solo alle espropriazioni immediatamente traslative, ma anche quando «singoli diritti, che all'istituto si ricollegano (naturalmente secondo il regime di appartenenza dei beni configurato dalle norme in vigore), vengano compressi o soppressi senza indennizzo, mediante atti di imposizione che, indipendentemente dalla loro forma, conducano tanto ad una traslazione totale o parziale del diritto, quanto ad uno svuotamento di rilevante entità ed incisività del suo contenuto, pur rimanendo intatta l'appartenenza del diritto e la sottoposizione a tutti gli oneri, anche fiscali, riguardanti la proprietà fondiaria», in quanto «anche tali atti vanno considerati di natura espropriativa»;

e) tra i limiti connessi e connaturali alla funzione sociale del diritto di proprietà, rientrano quelli «inerenti all'intensità estensiva e volumetrica, alla localizzazione, al decoro e simili», ovvero quelli «di immodificabilità per la limitata durata (purché ragionevole) dei piani particolareggiati, di quelle aree che i piani stessi destinano al trasferimento in vista delle programmate trasformazioni o diverse utilizzazioni»;

f) non è invece costituzionalmente consentito che l’approvazione del p.r.g. comporti (in assenza della previsione di un indennizzo) l’immediata estinzione di ogni possibilità di edificazione, nelle «ipotesi di vincoli temporanei (ma di durata illimitata) preordinati al successivo (ma incerto) trasferimento del bene per ragioni di interesse generale», ovvero nelle «ipotesi di vincoli che, pur consentendo la conservazione della titolarità del bene, sono tuttavia destinati a operare immediatamente una definitiva incisione profonda, al di là dei limiti connaturali, sulla facoltà di utilizzabilità sussistenti al momento dell'imposizione».

La sentenza n. 55 del 1968 non ha invece dichiarato incostituzionale l’articolo 11, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, che dispone la durata indeterminata delle previsioni del piano urbanistico.

Essa non ha dunque imposto al legislatore di disporre la durata temporanea dei vincoli preordinati all'esproprio (continuandosi ad applicare il menzionato primo comma dell’articolo 11), ma ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell'articolo 7 nella parte in cui consentiva la previsione di vincoli preordinati all'espropriazione di durata illimitata, in assenza della corresponsione di un indennizzo in favore del proprietario, in considerazione dell'indubbio deprezzamento che il bene subiva a seguito della mera imposizione del vincolo di durata illimitata, preordinato all'esproprio.

10.3. Come è noto, nell’adeguarsi alle statuizioni della Corte Costituzionale, il legislatore (con l’articolo 2 della legge n. 1187 del 1968) non ha previsto l’obbligo di corrispondere l’indennizzo ed ha sancito la decadenza dei vincoli preordinati all’esproprio, a seguito del decorso del quinquennio dalla approvazione dello strumento urbanistico generale, quando i vincoli stessi «incidono su beni determinati» e importano il trasferimento coattivo del bene ovvero non consentono al suo proprietario neppure di utilizzarlo.

La successiva giurisprudenza della Corte Costituzionale (nelle sentenze 22 dicembre 1989, n. 575, e 12 maggio 1982, n. 92) ha chiarito che il legislatore avrebbe potuto scegliere tra i due seguenti sistemi:

a) o attribuendo all'autorità urbanistica il potere di apporre vincoli preordinati all'esproprio (ovvero preclusivi dell'utilizzazione da parte dei proprietari), aventi durata illimitata nel tempo, ma allora si sarebbe dovuto prevedere un congruo indennizzo;

b) oppure attribuendo il potere di apporre i descritti vincoli entro limiti temporali, ed allora si sarebbe potuto non prevedere alcun indennizzo per la temporanea negativa incidenza sul diritto di proprietà.

Anche al fine di non gravare la finanza pubblica, il legislatore (col citato articolo 2 della legge n. 1187 del 1968) ha discrezionalmente scelto il sistema descritto nella lettera b) ed ha fissato la durata massima di cinque anni dei vincoli preordinati all’esproprio.

10.4. Come è stato osservato dalla dottrina più attenta, la sentenza n. 55 del 1968 ha colto l’irrazionalità del sistema che derivava dall’articolo 7 della legge n. 1150 del 1942, poiché:

- alcuni proprietari (quelli delle aree considerate edificabili dalle discrezionali scelte del piano regolatore) potevano senz’altro costruire, beneficiando dell’aumento di valore derivante per lo più dalle stesse scelte urbanistiche, dallo sviluppo dell’abitato e dalla realizzazione delle infrastrutture a spese della collettività;

- altri proprietari (quelli che avevano subito il vincolo preordinato all’esproprio) non solo non potevano costruire ed avrebbero in prospettiva perso il loro bene, ma addirittura nessun indennizzo percepivano malgrado vi fosse stato un obiettivo decremento di valore del bene, proprio a causa dell’imposizione del vincolo preordinato all’esproprio, avente durata indeterminata.

La sentenza n. 55 del 1968 della Corte Costituzionale ha affermato principi rilevanti sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello procedimentale.

Sotto il profilo sostanziale, la Corte Costituzionale:

- non ha considerato preclusa la legge che vieti l’edificazione al proprietario in quanto tale, senza prevedere un indennizzo;

- ha affermato che, se il sistema consente al piano urbanistico di attribuire ad alcuni proprietari la facoltà di edificare, per il principio di uguaglianza va indennizzato il proprietario che non può costruire a tempo indeterminato e subisce una diminuzione di valore del suo bene, a causa del vincolo preordinato all’esproprio.

Sotto il profilo procedimentale, la Corte Costituzionale ha ribadito l’esigenza che debbano avere una durata massima i procedimenti espropriativi (intesi in senso ampio):

- nel vigore della legge 25 giugno 1865, n. 2359, il decreto d’esproprio non poteva essere emanato in ogni tempo, poiché l’articolo 13 (per la giurisprudenza tuttora espressivo di un principio generale) prevedeva la fissazione dei termini di inizio e di conclusione del procedimento espropriativo e delle opere;

- l’articolo 7 della legge n. 1150 del 1942 si poneva in contrasto con la Costituzione, per la parte che consentiva l’attivazione del procedimento di esproprio senza limiti di tempo dall’avvenuta apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.

In base ai principi enunciati dalla sentenza n. 55 del 1968, pertanto, si deve affermare che, se il sistema non prevede l’indennizzo nel caso di imposizione del vincolo preordinato all’esproprio, vi deve essere un termine finale entro il quale va attuato tale vincolo (mediante la dichiarazione di pubblica utilità).

Se invece è corrisposto l’indennizzo, tale termine finale può anche non esservi.

10.4. La successiva legislazione si è caratterizzata per i seguenti aspetti:

a) le leggi hanno varie volte prorogato la durata dei vincoli preordinati all’esproprio, in attesa di una legge di generale riordino, per rispettare le statuizioni della sentenza n. 55 del 1968;

b) non sono state espressamente disciplinate le conseguenze della decadenza dei vincoli preordinati all’esproprio e della loro reiterazione;

c) con la legge n. 765 del 1967 e la legge n. 865 del 1971 (come successivamente modificata nel 1974 e nel 1977), la pianificazione urbanistica (già rilevante e avente rilievo conformativo in base all’articolo 896 del codice civile e alla legge n. 1150 del 1942) ha assunto un ruolo decisivo per l’attribuzione del concreto carattere edificatorio alle aree;

d) sono stati previsti divieti, penalmente sanzionati, di costruire in assenza della concessione edilizia e in base ad una concessione contrastante con gli strumenti urbanistici, anche attuativi.

10.5. Tale complessiva normativa (di rilievo amministrativo e penale) ha dato luogo anche ad una complessiva riforma dell’indennità di espropriazione.

Al criterio generale del valore venale del bene espropriato, previsto dall’articolo 39 della legge n. 2359 del 1865, ed ai criteri variamente riduttivi, previsti dalle leggi speciali, la legislazione degli anni Settanta ha sostituito il ‘criterio unico’ (con alcuni coefficienti modificativi) dell’indennità commisurata su l valore agricolo medio, calcolato per metro quadrato su base provinciale.

Tale innovativo criterio:

- era coerente con le normativa (tuttora in vigore) per la quale si può costruire, in base alla concessione edilizia, solo se ciò è consentito dallo strumento urbanistico;

- aveva unificato il criterio di liquidazione dell’indennità di espropriazione, facendo venire meno le discriminazioni inerenti alle varie normative preesistenti, ispirate ai criteri più eterogenei;

- riduceva l’entità della spesa necessaria per la realizzazione degli interventi.

10.6. Peraltro, la Corte Costituzionale (con la successiva sentenza n. 5 del 1980) ha rilevato che la riforma sul c.d. valore agricolo medio aveva reso ancora più marcata la diversità di trattamento tra i titolari di beni conformati da un piano urbanistico:

- i proprietari delle aree considerate edificabili dalle discrezionali scelte del piano regolatore potevano senz’altro costruire (continuando a beneficiare dell’aumento di valore derivante per lo più dalle stesse scelte urbanistiche, dallo sviluppo dell’abitato e dalla realizzazione delle infrastrutture a spese della collettività);

- i proprietari delle aree espropriate ed edificabili (dopo avere già subìto un vincolo preordinato all’esproprio per la durata massima di cinque anni) ottenevano un indennizzo calcolato senza tenere conto delle reali qualità del bene, perché equiparato a quello non avente destinazione edificatoria.

Come è noto, la sentenza n. 5 del 1980 ha dichiarato l’incostituzionalità di tutte le norme che, per le aree edificabili, avevano previsto il pagamento dell’indennità di espropriazione in base al c.d. valore agricolo medio.

La sentenza n. 5 del 1980 ha affermato che;

a) «è indubbiamente esatto che il sistema normativo attuato per disciplinare l’edificabilità dei suoli demanda alla pubblica Autorità ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando (mediante i programmi pluriennali di attuazione previsti dall’articolo 13 della legge n. 10 del 1977) della edificazione»;

b) tuttavia, per le aree rese edificabili dagli strumenti urbanistici, «la edificazione avviene ad opera del proprietario dell’area, il quale, occorrendo ogni altra condizione, ha diritto ad ottenere la concessione edilizia, che è trasferibile con la proprietà dell’area ed è irrevocabile»;

c) «da ciò deriva che il diritto di edificare continua a inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire, anche se di essi sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l’avente diritto può solo costruire entro i limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici»;

d) poiché il sistema consente di edificare «al solo proprietario o al titolare di un altro diritto reale che legittimi a costruire», «la concessione a edificare non è attributiva di diritti nuovi ma presuppone facoltà preesistenti, sicché sotto questo profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell’antica licenza, avendo lo scopo di accertare la ricorrenza delle condizione previste dall’ordinamento per l’esercizio del diritto, nei limiti in cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la sussistenza»;

e) la «destinazione edilizia dei suoli è implicitamente riconosciuta dal sistema attuato con la legge n. 865 del 1971 e successive modifiche, in quanto i coefficienti di maggiorazione dell’indennità per le aree comprese nei centri edificati … non possono avere razionale giustificazione se non ritenendo che si sia voluto attribuire all’espropriato un maggiore compenso in relazione alla destinazione edilizia delle aree stesse»;

f) per queste ragioni, non è conforme all’articolo 42, terzo comma, Cost. la previsione del c.d. valore agricolo medio come criterio per la determinazione della misura dell’indennità di espropriazione dell’area edificabile, perché avulso «dalle sue caratteristiche essenziali e dalla destinazione economica» e non basato sul suo valore.

In sintesi, la sentenza n. 5 del 1980 ha ritenuto che:

- pur non dovendo corrispondere al valore venale dell’area edificabile, l’indennità di esproprio deve avere come base di riferimento (salvi gli eventuali parametri riduttivi) il valore effettivo dell’area e non un valore ‘astratto’ e calcolato in base al valore agricolo medio;

- derivano incongruità e disparità di trattamento dal calcolo dell’indennità di esproprio per un’area edificabile in base al criterio agricolo.

La stessa Corte ha poi chiarito che la sentenza n. 5 del 1980 ha riguardato i soli terreni che abbiano ricevuto destinazione edificatoria (e non quelli agricoli, per cui quali continuano ad applicarsi le norme sul c.d. valore agricolo medio: Corte Cost., 21 dicembre 1985, n. 355; 30 luglio 1984, n. 231; 10 giugno 1993, n. 283, punto 6.2. della motivazione)..

10.7. E’ noto che, a seguito della sentenza n. 5 del 1980, vi è stato un periodo di vuoto normativo per la disciplina dell’indennità di espropriazione per le aree edificabili.

In attesa di una complessiva riforma, tale vuoto:

- ha comportato un enorme contenzioso (in relazione al quale la Corte di Cassazione ha ritenuto applicabile il criterio del valore venale, stabilito dall’articolo 39 della legge n. 2359 del 1865);

- è stato colmato (retroattivamente e salvi i rapporti esauriti) dall’articolo 5 bis del decreto legge n. 333 del 1992, convertito nella legge n. 359 del 1992.

A parte le specifiche osservazioni che di seguito saranno esposte circa la disciplina attualmente vigente per la determinazione dell’indennità di espropriazione, può affermarsi che tale articolo 5 bis (dichiaratamente provvisorio) ha consentito di superare gli aspetti di incostituzionalità individuati con la sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 1980.

Infatti, l’indennità di esproprio (a parte i relativi parametri riduttivi) si calcola in base ad un parametro che tiene conto delle caratteristiche essenziali delle aree, anche se essa è edificabile.

10.8. Il concetto di «area edificabile» ha oramai acquisito autonomo rilievo giuridico in base alla giurisprudenza della Corte Costituzionale.

Pertanto, il legislatore ha ritenuto di fissare un criterio di calcolo, basato sul principio di legalità e sui poteri di conformazione.

Al di là delle quanto mai eterogenee impostazioni dottrinali riguardanti il «contenuto essenziale» della proprietà privata (impostazioni che sovente dipendono dalle posizioni e dalle ideologie personali degli autori), i poteri di conformazione, infatti, sono stati considerati decisivi dal legislatore per delimitare le facoltà giuridiche dei proprietari. In coerenza con i principi costituzionali (già rimarcati dalla citata sentenza della Corte Costituzionale n. 38 del 1966) e con le previsioni della legge n. 1150 del 1942 e dell’articolo 869 c.c., l’articolo 5 bis ha disposto al terzo comma che, «per la valutazione della edificabilità delle aree, si devono considerare le possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio».

Nel successivo comma 5, l’articolo 5 bis ha demandato ad un regolamento del Ministro dei lavori pubblici, ancora non emanato, la definizione dei criteri e dei requisiti «per l’individuazione dell’edificabilità di fatto di cui al comma 3 ».

10.9. Circa la portata del riportato comma 3 dell’articolo 5 bis, si deve inoltre segnalare che:

- nell’ottica della irrilevanza del plusvalore di cui beneficia la proprietà privata in base agli interventi pubblici ed alle spese sopportate dalla collettività, il medesimo comma 3 si è riferito «al momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio»;.

- per la giurisprudenza della Corte di Cassazione (condivisa dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 283 del 1993), il valore delle aree edificabili va invece quantificato tenendo conto del momento in cui è emanato il decreto di esproprio.

Nell’attuale diritto vivente, pertanto, coesistono principi tra di loro alquanto incoerenti, poiché per la determinazione dell’indennità di esproprio di aree edificabili l’articolo 5 bis prevede criteri ‘riduttivi’ del valore venale, calcolato però in base alle caratteristiche esistenti al momento dell’esproprio (e dunque in base al plusvalore derivante dagli interventi pubblici, programmati o realizzati): il criterio riduttivo si applica su un valore venale calcolato col computo del plusvalore, con scarsa coerenza con il disegno originario della legge n. 2359 del 1865 e anche con le esigenze evidenziate dalla sentenza n. 55 del 1968.

10.10. Per quanto riguarda il vincolo preordinato all’esproprio (avente durata massima di cinque anni in base all’articolo 2 della legge n. 1187 del 1968), va infine rimarcata l’importanza della sentenza della Corte Costituzionale 20 maggio 1999, n. 179, per la quale:

a) vanno «considerati come normali e connaturali alla proprietà, quale risulta dal sistema vigente, i limiti non ablatori posti normalmente nei regolamenti edilizi o nella pianificazione e programmazione urbanistica e relative norme tecniche, quali i limiti di altezza, di cubatura o di superficie coperta, le distanze tra edifici, le zone di rispetto in relazione a talune opere pubbliche, i diversi indici generali di fabbricabilità ovvero i limiti e rapporti previsti per zone territoriali omogenee e simili»;

b) si pongono «al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo … i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata»;

c) mentre per il primo periodo di efficacia del vincolo preordinato all’esproprio non è necessariamente dovuto un indennizzo, questo è dovuto a seguito della sua reiterazione;

d) per la determinazione dell’indennizzo, la sede più idonea è quella della fonte legislativa e non una sentenza additiva della Corte, considerato che nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio vi è una diminuzione del valore di scambio o di utilizzabilità del bene e non la perdita della sua proprietà;

e) tale diminuzione va commisurata «o al mancato uso normale del bene, ovvero alla riduzione di utilizzazione, ovvero alla diminuzione di prezzo di mercato (locativo o di scambio) rispetto alla situazione giuridica antecedente alla pianificazione che ha imposto il vincolo»;

f) il legislatore deve «precisare le modalità di attuazione del principio dell’indennizzabilità dei vincoli a contenuto espropriativo», esercitando «scelte tra misure risarcitorie, indennitarie, e anche, in taluni casi, tra misure alternative riparatorie anche in forma specifica …, mediante offerta ed assegnazione di altre aree idonee alle esigenze del soggetto che ha diritto ad un ristoro»;

g) in attesa del «necessario intervento legislativo sulla quantificazione e sulle modalità di liquidazione dell’indennizzo», già a seguito della stessa sentenza n. 179 del 1999 in sede giurisdizionale il giudice può accertare il carattere sostanzialmente espropriativo della reiterazione del vincolo e «ricavare dall’ordinamento le regole per la liquidazione di obbligazioni indennitarie, nella specie come obbligazioni di ristoro del pregiudizio subito dalla rinnovazione o dal protrarsi del vincolo».

10.11. L’esame delle sopra richiamate sentenze della Corte Costituzionale (specie delle sentenze n. 38 del 1966 e n. 179 del 1999) conduce a ritenere, innanzitutto, che sia stato sancito il principio per cui gli strumenti urbanistici conformano la proprietà privata, non solo con il fondamentale articolo 869 del codice civile (per il quale «i proprietari di immobili nei comuni dove sono formati piani regolatori devono osservare le prescrizioni dei piani stessi nelle costruzioni e nelle riedificazioni o modificazioni delle costruzioni esistenti»), ma anche con la fondamentale legge urbanistica n. 1150 del 1942.

Ciò non è contraddetto dalla lettura della sentenza n. 5 del 1980, che pure ha ritenuto che «il diritto di edificare continua a inerire alla proprietà».

Tale frase, nell’economia della motivazione della sentenza, non ha negato il principio costantemente affermato dalla Corte (ed evincibile dall’ordinamento, nel suo complesso) sul rilievo del potere di conformazione degli strumenti urbanistici, anche per attribuire la qualità edificatoria.

Con essa, la Corte ha chiaramente rimarcato come fosse irrazionale il sistema di cui alle leggi del 1971, 1974 e 1977, che davano decisivo rilievo al criterio astratto del valore agricolo medio anche quando si dovesse calcolare l’indennità di espropriazione delle aree edificabili (in cui il proprietario può costruire, ove consentito dallo strumento urbanistico), cioè di quelle per le quali vi sono le «possibilità legali ed effettive di edificazione », se si adopera l’espressione del richiamato articolo 5 bis.

In altri termini, la sentenza n. 5 del 1980 ha evidenziato che, fino a quando l’ordinamento consente al proprietario di chiedere la concessione edilizia per costruire sulla sua proprietà, è irrazionale un sistema di determinazione della indennità di esproprio che prescinda dal carattere edificatorio dell’area.

Il richiamo contenuto nella sentenza al «diritto di edificare» va pertanto inteso nel senso più coerente con la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato, perché il proprietario non può certo costruire purché lo voglia: compatibilmente con la normativa e le previsioni urbanistiche, il proprietario del suolo è titolare di un interesse legittimo al rilascio della concessione edilizia e commette il reato previsto dall’articolo 17 della legge n. 10 del 1977 (e successive modificazioni) se costruisce, in assenza della prescritta concessione.

10.12. Ferma restando la conformità ai principi costituzionali della normativa che prevede il potere di conformazione mediante i piani urbanistici, la Corte Costituzionale ha più volte evidenziato anche la necessità che il legislatore superi l’attuale disciplina dichiaratamente ‘provvisoria’, compiendo alcune scelte basilari, che incidono ad un tempo sia nella materia urbanistica, sia in quella espropriativa (alla prima strettamente connessa sotto molteplici aspetti, sostanziali e procedimentali).

10.13. In primo luogo, va segnalato che il legislatore potrebbe completare il complessivo disegno delle leggi degli anni Settanta (la legge n. 865 del 1971, e successive modificazioni), avocando una volta per tutte al potere pubblico le facoltà di edificazione,cioè escludendo che il proprietario, in tale qualità, sia l’unico soggetto legittimato a chiedere il rilascio della concessione edilizia.

Va doverosamente segnalato che tale riforma si porrebbe in una linea di discontinuità con la legislazione successiva al 1977.

Tuttavia, dovendosi in questa sede prospettare le possibili soluzioni conformi alla Costituzione, si ritiene di formulare osservazioni anche rispetto ad una siffatta riforma.

Essa dovrebbe contenere alcune norme che impediscano la riproduzione di quegli aspetti di incostituzionalità, rilevati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 55 del 1968.

10.13.1. La legge di riforma (nel ribadire l’attuale regola per cui la pubblica Autorità decide «sul se, sul come e anche sul quando della edificazione»: v. la stessa sentenza n. 55 del 1968, p. 4 della motivazione) potrebbe non riservare più al proprietario, per tale sua sola qualità, la possibilità di edificare, purché siano modificate coerentemente le disposizioni del codice civile che definiscono il diritto di proprietà ed anche la normativa tributaria.

Per depurare dalla singola proprietà fondiaria il plusvalore derivante dalla previsione urbanistica che consente l’edificazione (e cioè, in altri termini, per rendere indifferenti i proprietari alle scelte di utilizzazione di una certa parte del territorio), si potrebbe prevedere che, all’interno di un più o meno ampio comparto destinato all’edificazione, tutti i proprietari siano tendenzialmente trattati allo stesso modo.

La parità di trattamento andrebbe conseguita con meccanismi compensativi tali da evitare che:

- alcuni costruiscano sulle aree rese edificabili dall’Autorità urbanistica;

- altri subiscano irrazionali discriminazioni, non solo perché dopo aver subito il vincolo preordinato all’esproprio siano poi espropriati, ma anche perché l’indennità è corrisposta in misura nettamente inferiore al valore venale.

Infatti, la determinazione di indennità di esproprio in misura notevolmente inferiore al valore venale del bene (come peraltro è disposto attualmente, in via provvisoria, dall’articolo 5 bis della legge n. 359 del 1992) non può che acuire la disparità di trattamento rispetto alla posizione di chi non solo non subisce l’esproprio con una ridotta indennità, ma anche beneficia di un incremento di valore, per l’attribuzione del carattere edificatorio alla propria area.

I meccanismi compensativi dovrebbero in ogni caso però prevedere idonei strumenti per consentire al proprietario espropriando di partecipare agli utili derivanti dalla edificazione dei suoli circostanti e dovrebbero fare determinare l’indennità di esproprio anche sulla base dei medesimi utili, consentendo che il costo dell’esproprio ricada non sull’Amministrazione, ma su coloro che conservano la proprietà e possono edificare proprio perché anche a loro beneficio è disposto l’esproprio in danno di altri.

10.13.2. L’eliminazione di ogni ingiustificato plusvalore, con un sistema alternativo che tenga conto anche della tendenziale irreversibilità delle modificazioni del territorio, si potrebbe conseguire disponendo che:

a) per il rilascio della concessione edilizia, vada corrisposta al Comune una somma pari al maggiore valore che si aggiunge al valore base dell’area, da calcolare per ambiti territoriali in base al valore agricolo;

b) tale somma sia determinata dal proprietario mediante una offerta, da pubblicare nel modo più efficace affinché altri interessati (oltre allo stesso originario offerente) possano formulare offerte superiori, con un sistema che preveda il diritto per l’aggiudicatario della gara di acquistare coattivamente il suolo, il diritto del proprietario non aggiudicatario di ottenere l’importo base (eventualmente aumentato di una certa percentuale dell’importo posto a base della aggiudicazione) ed il diritto del Comune di trattenere la differenza della somma, corrispondente al valore del rilascio della concessione.

Il sistema della gara (per il quale sarebbero coessenziali idonei mezzi di pubblicità) non solo consentirebbe un trattamento uniforme dei proprietari, ma potrebbe anche consentire il ritorno al criterio del valore agricolo medio per la determinazione dell’indennità di espropriazione.

10.13.3. In ogni caso, qualora si disponesse che al proprietario in quanto tale non spetti l’edificazione, vi sarebbero ripercussioni anche per quanto riguarda la stessa determinazione dell’importo da corrispondere nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio, in base alla sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1999.

Infatti, se la riforma avocasse al potere pubblico le facoltà di edificazione (escludendo che solo il proprietario possa chiedere il rilascio della concessione edilizia), potrebbe tornarsi al disegno originario della legge n. 1150 del 1942 e delle leggi degli anni 1971, 1974 e 1977, perché:

- si potrebbe tornare alla regola della durata indeterminata nel tempo dei vincoli preordinati all’esproprio (salve le regole procedimentali e garantistiche riguardanti il procedimento di dichiarazione di pubblica utilità, da sottoporre pur sempre a un termine massimo di durata);

- si potrebbe mantenere fermo l’attuale sistema della durata a tempo determinato dei medesimi vincoli, eventualmente aumentando la relativa durata, senza che vi sia più la necessità dell’indennizzo nel caso della loro reiterazione, in quanto non sarebbe più operante il sistema normativo rispetto al quale la Corte Costituzionale ha pronunciato la sentenza n. 179 del 1999.

10.14. Qualora la legge di riforma della disciplina dei suoli voglia mantenere l’attuale impostazione e non intenda formalmente scorporare dalle facoltà del proprietario quella di edificare (beninteso, nel rispetto del principio per cui il diritto di costruire sorge solo col rilascio della concessione edilizia e nel rispetto di tutte le legislazioni di settore), occorre pur sempre evitare l’insorgere delle situazioni che hanno dato luogo alle sentenze n. 55 del 1968 e 5 del 1980 della Corte Costituzionale.

10.14.1. In applicazione dei principi sanciti dalla sentenza n. 55 del 1968, la legge:

- dovrebbe continuare a prevedere tempi massimi certi per tutte le fasi procedimentali, sia per quella che sorge con la imposizione del vincolo preordinato all’esproprio, sia per quella successiva, basata sulla dichiarazione di pubblica utilità e che si conclude col decreto di esproprio;

- dovrebbe evitare che si verifichino discriminazioni tra i proprietari delle aree rese edificabili dallo strumento urbanistico e quelli che, nell’ambito dello stesso comparto, subiscono dapprima il vincolo preordinato all’esproprio e poi l’esproprio (per di più, ricevendo un indennizzo inferiore al valore venale del bene).

Per ottenere un più marcato rispetto sostanziale del principio di uguaglianza occorre innanzitutto incidere sulla normativa urbanistica, prevedendo:

- più efficaci forme di partecipazione dei proprietari (potendosi prendere a modello i sistemi di altri Paesi della Unione Europea), poiché solo solide garanzie procedimentali e la trasparente azione amministrativa (con la più ampia valorizzazione delle istanze partecipative) consentono una fisiologica mediazione degli interessi, coerente con i valori espressi dagli articoli 42 e 97 della Costituzione;

- misure volte ad assicurare comunque il soddisfacimento degli standard (se del caso, affermando sia il principio per cui le concessioni edilizie possono essere rilasciate solo dopo la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria ed il soddisfacimento degli standard, sia il divieto di rilasciare concessioni ‘in deroga’, che nella prassi si sono dimostrate perniciose per l’organica attuazione dei piani regolatori).

Le più efficaci forme di partecipazione consentirebbero, inoltre, di ridurre la amplissima discrezionalità dell’Autorità urbanistica (le cui scelte, come ha evidenziato la dottrina più avveduta, il più delle volte non sono specificamente motivate, ma si basano sul c.d. pennarello del redattore delle tavole, che si rende interprete di varie sollecitazioni) e non dovrebbero comportare ritardi nella conclusione dei relativi procedimenti.

Il confronto tra gli interessati, improntato ad una maggiore trasparenza, potrebbe condurre ad un miglioramento della qualità delle scelte ed anche ad una loro maggiore rapidità.

In materia, è noto che il ritardo dell’azione delle Autorità urbanistiche, specie nella fase della approvazione, oltre a precludere la legittima e fisiologica destinazione delle risorse economiche, contribuisce a stimolare illegali attività di trasformazione del territori o ed abusi edilizi, con irreversibile danno per l’ambiente.

Come emerge dalle realtà locali, tali abusi non sono adeguatamente sventati dalla legislazione penale (per un complesso di ragioni le cui valutazioni competono al Parlamento, ma tra le quali hanno particolare rilievo la qualificazione dei reati come contravvenzioni, le relative pene edittali e i termini di prescrizione dei reati) e dalla legislazione amministrativa (per l’attuale assenza di conseguenze che rendano non convenienti gli abusi e per l’insufficienza di strumenti e mezzi che consentano l’effettiva e rapida demolizione delle opere abusive, che, se realizzata, avrebbe un sicuro effetto dissuasivo).

Inoltre, la trasparente emersione degli interessi già nella fase della pianificazione potrebbe in certi casi comportare la necessità della motivazione della scelta concreta, con la possibilità del più idoneo sindacato giurisdizionale, di più ponderate scelte e di una migliore qualità dell’azione amministrativa.

10.14.2. A parte le possibili modifiche riguardanti il procedimento di adozione e di approvazione degli strumenti urbanistici e delle loro varianti (ovvero di atti aventi effetti equivalenti), sul piano sostanziale potrebbero essere previsti meccanismi compensativi, volti a ridurre, per quanto possibile, l’obiettiva diversità di trattamento tra il proprietario che può edificare e quello che subisce l’esproprio, ad esempio perché vanno soddisfatti gli standard.

Il progetto di legge riguardante nuove «norme in materia urbanistica» (redatto dal Comitato ristretto della VIII Commissione, richiamata al punto 4), nella parte in cui ha inteso compensare le varie posizioni col rilievo dei comparti urbanistici, nella sua impostazione generale appare coerente con i suesposti valori costituzionali.

10.15. In ogni caso, in base alla sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1999, il legislatore è tenuto a disciplinare la quantificazione e le modalità di liquidazione dell’indennizzo per le ipotesi prese in considerazione dalla medesima sentenza.

Mentre le riforme sul regime dei suoli e la disciplina organica sulla indennizzabilità nel caso di reiterazione del vincolo non potranno che basarsi su scelte ampiamente discrezionali del legislatore, una disciplina minima essenziale sull’indennizzo va introdotta già nel testo unico da redigere ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 50 del 1999.

Infatti, in base alla sentenza n. 179 del 1999 può essere adito il giudice ordinario per ottenere il pagamento dell’indennizzo.

Per ridurre l’inevitabile contenzioso e per fissare una regola unitaria cui si attengano le Amministrazioni, nell’articolo 39 dello schema si è pertanto prevista una disciplina dichiaratamente provvisoria, tendente a colmare l’attuale vuoto normativo, senza effettuare particolari scelte discrezionali.

Al fine di porre regole uniformi per le Amministrazioni e di ridurre o prevenire il contenzioso innanzi all’Autorità giudiziaria, si può ritenere che il testo unico possa determinare un importo, ad esempio pari ad un quinto di quanto spetterebbe nel caso di esproprio.

Tale previsione non si porrebbe al di là della delega legislativa, perché l’articolo 7 della legge n. 50 del 1999 ha attribuito al Governo la possibilità di emanare un testo unico che costituisca il vero e proprio codice della materia: del resto, se la tradizione giuridica ha costantemente ammesso che un testo unico introduca nel sistema un nuovo istituto, a maggior ragione il decreto legislativo potrebbe limitarsi a determinare quanto spetti al proprietario, colmando doverosamente il vuoto normativo derivante dalla sentenza n. 179 del 1999.

Peraltro, nell’articolato si è preferito introdurre alcune regole volte a definire con rapidità la questione se spetti l’indennità nel caso di reiterazione del vincolo e, senza indicare il quantum dovuto, si è enunciato il principio per cui la somma va calcolata in base all’entità del danno effettivamente prodotto.

Parte terza: considerazioni sull’impostazione dell’articolato

11. In considerazione della contemporanea vigenza di norme eterogenee, concernenti ogni fase del procedimento espropriativo, si è ritenuto che non fosse il caso di riportare nel testo unico tutte le norme attualmente in vigore (succedutesi dal 1865 e aventi più o meno carattere generale – come le leggi degli anni Settanta – ovvero quelle riguardanti specifici tipi di opere o determinate città).

Per semplificare marcatamente il quadro normativo e disciplinare un modello unico di procedimento, si è redatto un articolato di carattere generale, con l’abrogazione di tutte le precedenti normative, generali o di settore (per le quali si attua una sostanziale tabula rasa): a tale articolato si è preferito attribuire la denominazione di ‘codice dell’espropriazione’, anche per semplificarne la citazione.

La normativa di carattere generale si basa su alcuni punti fermi, che già costituiscono principi generali e consolidati nell’attuale legislazione per l’esercizio del potere espropriativo.

11.1. Tenuto conto della legge n. 2359 del 1865 e delle successive leggi che hanno inciso nella materia espropriativa (sancendo la necessità del raccordo con le previsioni urbanistiche), si può affermare che, attualmente, il provvedimento di esproprio costituisce l’atto terminale di un terzo procedimento, collegato ad altri due precedenti procedimenti: la scansione delle varie fasi è stata specificamente indicata nell’articolato, anche per rendere agevole agli operatori la comprensione dei principi dell’istituto e, dunque, per avere una migliore qualità dell’azione amministrativa.

Il primo procedimento (di natura tipicamente anche urbanistica) riguarda l’imposizione del vincolo preordinato all’esproprio: in tale fase si individuano le aree occorrenti per la realizzazione dell’opera pubblica o di pubblica utilità.

Ferme restando tutte le altre norme statali e regionali sull’urbanistica, l’articolato ha esplicitato il principio per il quale è indefettibile il vincolo preordinato all’esproprio, che si può apporre col piano urbanistico (o con un atto equivalente).

Il secondo procedimento concerne la dichiarazione di pubblica utilità (che si ha con l’approvazione del progetto definitivo): in tale fase si determina il quid da realizzare sull’area, già individuata in sede di imposizione del vincolo.

Il terzo procedimento termina col decreto di esproprio, che di discrezionale oramai non ha più alcun reale contenuto.

Anzi, poiché nel sistema attuale l’Amministrazione nella prassi si immette nel possesso del bene in base all’ordinanza di occupazione d’urgenza, poi cominciando la realizzazione dell’opera, il decreto di esproprio spesso acquista un carattere dovuto (ponendosi altrimenti questioni di responsabilità del funzionario omittente).

Se nel sistema della legge del 1865 si esercitavano sotto distinti aspetti i poteri discrezionali di scelta nelle fasi che si concludevano con la dichiarazione di pubblica utilità e con il decreto di esproprio, il decreto di esproprio ha perso gran parte del suo rilievo ‘valutativo’, da quando si sono affermati il principio della programmazione nel piano urbanistico e la regola per cui l’approvazione del progetto definitivo comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.

Nella redazione del testo unico, dovendosi attuare le esigenze della semplificazione del riordino, si è in qualche modo inciso sui tre procedimenti sopra richiamati.

12. La fase della imposizione del vincolo (che di per sé attiene alla programmazione urbanistica) può aversi o con lo strumento urbanistico generale (PRG, programma di fabbricazione) o con un atto di natura equivalente (adottato in conferenza di servizi; accordo di programma, intesa, ecc.).

Questa fase appartiene però anche alla fase più propriamente espropriativa, perché:

a) la dichiarazione di pubblica utilità ed il procedimento espropriativo non possono radicalmente esservi se manca il vincolo in sede di programmazione;

b) la Corte Costituzionale (con la citata sentenza n. 55 del 1968) ha in sostanza affermato che il vincolo preordinato all’esproprio non può avere durata indeterminata: così come vi è (e vi deve essere) un termine massimo dell’ultima fase (dichiarazione di pubblica utilità-decreto di esproprio: v. l’articolo 13 della legge fondamentale del 1865), così vi deve essere una durata massima della fase precedente (attuazione del vincolo con la dichiarazione di pubblica utilità).

Il testo unico sull’espropriazione può dunque prendere in considerazione anche la disciplina del vincolo preordinato all’esproprio.

12.1. Poiché non vi è alcuna definizione legislativa del vincolo preordinato all’esproprio (in quanto di creazione giurisprudenziale), nell’articolato si chiarisce il rapporto intercorrente tra la pianificazione urbanistica e il procedimento espropriativo in senso stretto.

E’ noto che una delle più complesse questioni (che ha anche condotto alle sentenze della Corte Costituzionale sulla reiterazione del vincolo e sulla relativa indennizzabilità, col relativo vuoto normativo che il legislatore è obbligato a colmare, a seguito della sentenza n. 179 del 1999) attiene alla durata massima di 5 anni del vincolo preordinato all’esproprio:

il vincolo decade, se non vi è entro tale termine la dichiarazione di pubblica utilità.

Ciò comporta serissime implicazioni di natura urbanistica e processuale:

a) sotto il profilo urbanistico, approvato il piano accade di solito che sono celermente realizzate le opere private, mentre non sono realizzate quelle pubbliche, pur se obbligatorie perché soddisfano standard;

b) sotto il profilo processale:

b1) poiché la decadenza del vincolo fa sorgere aspettative di edificazione dell’area già soggetta al vincolo decaduto, vi sono pressoché sistematiche impugnazioni dei provvedimenti che reiterano il vincolo;

b2) sorgono le questioni riguardanti l’obbligo di indennizzo e i rapporti col pagamento della successiva indennità di esproprio.

Il termine di cinque anni, previsto dall’articolo 2 della legge del 1968, si è rivelato esiguo (si pensi a tutte le vicende riguardanti il Comune di Roma, su cui si è pronunciata l’Adunanza Plenaria con la decisione n. 24 del 1999, nel giudizio che ha condotto anche alla sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1999 sulla indennizzabilità nel caso di reiterazione del vincolo).

La situazione è resa più grave dal fatto che spesso le Amministrazioni, non avendo i fondi necessari, impongono vincoli preordinati all’esproprio inevitabilmente destinati a decadere per le difficoltà di redigere e di approvare i progetti.

Quando decade il ‘frettoloso’ vincolo preordinato all’esproprio, si manifesta un dispendio di energia sotto vari aspetti:

- si pongono le questioni sulla indennizzabilità;

- occorre un ulteriore procedimento di riapposizione del vincolo;

- come l’esperienza insegna, vi è il concreto rischio di abusi del privato, tendenzialmente destinati a diventare irreversibili;

- per l’area soggetta al vincolo decaduto, se esterna al centro abitato, in assenza di una espressa normativa la giurisprudenza ha ritenuto che si applica l’ultimo comma dell’articolo 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977 (il che rende problematica la successiva realizzazione delle opere pubbliche e la soddisfazione degli standard).

Per di più, i Comuni nel piano adottato (che impone le misure di salvaguardia) prevedono il vincolo preordinato all’esproprio, senza sapere se e quando vi sarà la successiva approvazione (consta che alcune Regioni si pronunciano sui piani adottati anche dopo 8 o 9 anni dalla trasmissione da parte del Comune): non è neppure pensabile che un Comune programmi l’opera nel piano adottato, accantonando le somme, quando per moltissimi anni giuridicamente l’opera non è realizzabile.

12.2. Ferma restando la normativa sulla emanazione degli strumenti urbanistici, l’articolato prevede una limitata (ma notevole) riforma sui vincoli preordinati all’esproprio:

a) si chiarisce una volta per tutte che il vincolo preordinato all’esproprio è il presupposto fondamentale per l‘ablazione della proprietà immobiliare;

b) si consente all’Autorità urbanistica di "non imporre subito" il vincolo preordinato all’esproprio, per non incorrere nella inevitabile decadenza per il decorso dei 5 anni (se l’Amministrazione non ha le disponibilità economiche o intende procurarsele dopo l’approvazione del piano urbanistico, è inutile fare subito decorrere i 5 anni).

Quanto al punto a), si osserva che un testo unico (in una ‘materia’ tanto complessa, gestita da migliaia di Amministrazioni e di funzionari), deve avere anche un intento ‘didascalico’ e spiegare ‘punto per punto’ quali siano gli atti necessari per l’esproprio.

Infatti, l’assenza di chiarezza normativa, anche sulle questioni più elementari, fino ad oggi ha invece creato un notevole contenzioso, come emerge anche dalla giurisprudenza formatasi sull’articolo 1 della legge n. 1 del 1978.

Quanto al punto b), l’articolo 9 dello schema dispone che il piano urbanistico, se su un’area privata va realizzata un’opera pubblica, possa anche prevedere che solo a seguito di un ulteriore atto sorge il vero e proprio vincolo preordinato all’esproprio.

L’articolo 9 identifica tale ‘atto ulteriore’ nel programma dei lavori, previsto dall’articolo 14 della legge n. 109 del 1994 (sulla programmazione dei lavori pubblici), e dispone che il vincolo preordinato all’esproprio sorga soltanto con l’inserimento dell’opera nel programma triennale (o negli aggiornamenti annuali): fino all’inserimento dell’opera nel programma (che per il richiamato articolo 14 a volte determina esso stesso la dichiarazione di pubblica utilità) , il vero e proprio procedimento espropriativo (la c.d. seconda fase) non può esservi.

Pertanto, sorgendo il vincolo preordinato all’esproprio solo quando l’opera è inserita nel programma dei lavori, diventa consequenziale disporre la decadenza del vincolo nel caso di mancata attuazione del medesimo programma.

Tale ‘disegno’ va però completato disciplinando dettagliatamente il caso il cui il piano urbanistico demandi al programma dei lavori il sorgere del vincolo preordinato all’esproprio.

Poiché si deve evitare qualsiasi "buco procedimentale di durata indeterminata", è stato previsto il termine di tre anni entro il quale il programma dei lavori deve adeguarsi al piano urbanistico, decorso il quale comunque comincia a decorrere l’ulteriore termine per attivare la c.d. seconda fase (ad esempio, se l’approvazione del programma dei lavori avviene dopo i 3 anni dalla approvazione del PRG, la seconda fase è preclusa col decorso dei 3+5 anni).

Se però il termine di 5 anni è scaduto (o è prorogato per tempo), tenuto conto della giurisprudenza costituzionale va mantenuta ferma la regola della erogazione di un indennizzo, pari ad una percentuale dell’importo che sarebbe dovuto a titolo di indennità di esproprio.

Nell’ottica di ridurre per quanto possibile il contenzioso in sede amministrativa o giurisdizionale, l’articolo 39 ha indicato un criterio specifico per quantificare l’importo spettante, in considerazione del fatto che il proprietario continua nel frattempo ad utilizzare la propria area.

13. E’ noto che, attualmente, la dichiarazione di pubblica utilità può essere disposta entro i 5 anni dalla apposizione del vincolo:

- se riguarda un singolo bene (il cui progetto definitivo è approvato ai sensi dell’articolo 1 della legge n. 1 del 1978 o dell’articolo 14 della legge n. 109 del 1994), essa ha la durata da indicare ai sensi dell’articolo 13 della legge fondamentale (nella prassi, di cinque anni, salva una motivata proroga);

- se deriva dalla approvazione di uno strumento attuativo, essa ha la durata prevista dalla legge (ad esempio, 18 anni per i p.e.e.p., 10 anni per i p.i.p.).

13.1. Quanto ai rapporti col decreto di esproprio, la legge del 1865 si basava su una regola (conosciuta dalla maggior parte degli altri ordinamenti europei), per la quale l’Amministrazione prima diventa proprietaria dell’area e poi realizza l’opera.

Nell’articolato è ribadita tale regola, che consente di eliminare di netto ogni ipotesi di ‘occupazione appropriativa’ (ovvero di ‘occupazione acquisitiva), che si ha per la Cassazione (e salve le oscillazioni giurisprudenziali) quando l’Amministrazione mediante una patologia della azione amministrativa ha realizzato l’opera sul bene altrui.

Solo le leggi successive a quella del 1865:

- hanno introdotto la figura della occupazione preordinata all’esproprio, attribuendola alla competenza di una autorità diversa da quella competente ad emettere il decreto di esproprio;

- hanno poi subordinato l’occupazione d’urgenza ad un ulteriore atto, di dichiarazione della indifferibilità ed urgenza.

La distinzione tra l’occupazione preordinata all’esproprio e il decreto di esproprio ha comportato:

- la sistematica emanazione dei decreti di occupazione d’urgenza (ogni opera pubblica è più o meno urgente);

- il sistematico inizio dei lavori prima dell’adozione del decreto di esproprio;

- la proliferazione del contenzioso e dei casi di patologia dell’azione amministrativa (si pensi a tutte le controversie sorte nel caso di tardiva esecuzione dell’ordinanza di occupazione d’urgenza e nel caso di assenza del verbale di consistenza), con ‘esplosione’ dei casi di ‘occupazione appropriativa’.

Per tali casi, per di più, mentre in passato si ammetteva l’emanazione di decreti di esproprio in sanatoria (tanto che si era giunti ad ammettere la c.d. conversione automatica della domanda di risarcimento del danno in opposizione alla stima), la Corte di Cassazione nell’ultimo ventennio si è consolidata nel senso che non sia consentita l’emanazione di decreti di espropri in sanatoria (non potendo l’Amministrazione incidere sull’entità della somma da liquidare a titolo di risarcimento del danno).

13.2. La duplicazione dei decreti di occupazione d’urgenza e di esproprio (se giustificata sul piano storico e per la loro riconducibilità ad autorità diverse) non appare però più congrua e coerente con le sostanziali riforme generali e di settore, volte a consentire rapidamente la realizzazione dell’opera dopo la dichiarazione di pubblica utilità.

La antica ed ancora attuale esigenza (per cui l’Amministrazione prima espropria e poi comincia a realizzare l’opera) è stata attuata nell’articolato disponendo che il decreto di esproprio sia emanato senza rilevanti difficoltà dopo la dichiarazione di pubblica utilità e che il suo effetto ablatorio si produca, mediante una condizione sospensiva, quando l’Amministrazione si immette nel possesso dell’area.

Si ottiene così anche una notevole semplificazione del sistema, con l’accelerazione degli interventi e la riduzione del contenzioso, poiché l’effetto ablatorio si produce solo se è redatto il verbale di immissione nel possesso.

L’articolo 23 dello schema attribuisce all’atto oggi denominato ‘verbale di immissione nel possesso’ la natura di evento di una condizione sospensiva dell’effetto ablatorio.

In tal modo:

- si torna alla regola per cui la p.a. realizza l’opera sull’area oramai sua, con riduzione delle ipotesi di occupazione appropriativa (o usurpativa);

- si ottengono vari risparmi, perché l’Amministrazione occupa l’area e ne diventa proprietaria solo se l’opera è stata finanziata ed è subito realizzabile;

- si riducono le ipotesi di retrocessione, divenendo difficilmente ipotizzabili i casi di acquisto delle aree private in assenza della loro utilizzazione;

- si riduce, conseguentemente, il contenzioso.

13.3. Per i casi in cui l’opera è realizzata in assenza di un valido decreto di esproprio, e al fine di adeguare l’ordinamento italiano alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’articolo 43 attribuisce all’Amministrazione il potere di acquisire l’area al proprio patrimonio indisponibile e all’espropriato il diritto di conseguire il risarcimento del danno, salvo il sindacato in sede giurisdizionale del provvedimento di acquisizione.

Si introduce così nel sistema un istituto che consenta all’Amministrazione di acquisire, mediante un titolo giuridico, l’opera pubblica in un primo tempo realizzata in assenza del valido decreto d’esproprio: l’illecito aquiliano (che si ha nel caso di occupazione senza titolo) viene meno al momento dell’emanazione dell’atto di acquisizione.

14. L’articolato si è diffusamente occupato della quantificazione della indennità di esproprio.

In considerazione dell’articolo 81 Cost. e dell’assenza nella legge delega di un criterio ex articolo 76 Cost. che consenta innovazioni, esso si è limitato a riportare la legislazione vigente, distinguendo le relative ipotesi (anche sulla base dei principi affermati dalla Corte Costituzionale) ed enunciando specifiche regole, tratte anche dalla prassi giurisprudenziale, che hanno tenuto conto dell’esigenza di fissare specifiche regole coerenti con i principi generali, anche al fine consentire la parità di trattamento in casi identici e di ridurre il contenzioso, a volte caratterizzato da una non univoca giurisprudenza.

In sede di commento delle singole norme dell’articolato, sono di seguito enunciate tale regole.

Parte quarta: osservazioni sulle disposizioni dell’articolato

15. L’articolato è suddiviso in cinque titoli, che rispettivamente riguardano l’«oggetto ed ambito di applicazione del testo unico», le «disposizioni generali», le «disposizioni particolari», le «disposizioni sulla tutela giurisdizionale» e le «norme finali e transitorie».

16. Il primo titolo (sull’«oggetto ed ambito di applicazione del testo unico») si compone di sette articoli. 16.1. L’articolo 1 disciplina l’ambito di applicazione del testo unico sotto il profilo oggettivo. Sono state previste solo le espropriazioni di beni immobili, e non anche quelle di beni mobili, perché la legge delega ha preso in considerazione l’espropriazione in quanto collegata all’urbanistica, riferendosi alle sole espropriazioni immobiliari.

Il comma 1 fa riferimento sia all’espropriazione di beni, sia all’espropriazione di diritti. L’espressione ampia «diritti» giova a comprendere nell’oggetto dell’espropriazione oltre che, come normalmente accade, il diritto di proprietà, anche un diritto reale minore (diritto di servitù), ovvero un diritto personale di godimento (cfr. Ad. Plen., 18 luglio 1983, n. 21).

Il comma 2 chiarisce che sono disciplinate pure le espropriazioni preordinate ad interventi

diversi dalle opere pubbliche o di pubblica utilità in senso stretto, rivolti all’utilizzazione da parte della collettività di beni o terreni di cui non è prevista la materiale modificazione o trasformazione: si pensi alle espropriazioni di beni di rilievo culturale o di aree da destinare a verde pubblico.

Il comma 3 stabilisce che i principi desumibili dal testo unico hanno natura di norme fondamentali di riforma economico–sociale.

Il comma 4 contiene la ‘norma di salvaguardia’ che mira a preservare il testo unico da modifiche o abrogazioni tacite (così come è stato previsto per le disposizioni sugli enti locali, dall’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267).

16.2. L’articolo 2 ribadisce la rilevanza in materia del principio di legalità e richiama i principi generali dell’azione amministrativa.

Esso, dunque, si ispira all’articolo 1 della legge n. 2359 del 1865 e alle disposizioni generali della legge n. 241 del 1990.

16.3. L’articolo 3 fornisce la definizione di quattro espressioni, spesso adoperate nel testo, e risultano opportune per evitare inutili ripetizioni.

Sono così state definite le nozioni di «espropriato», «autorità espropriante», «beneficiario dell’espropriazione», «promotore dell’espropriazione».

16.4. L’articolo 4 riguarda i «beni non espropriabili o espropriabili in casi particolari».

L’articolo è stato formulato tenendo conto della eterogenea normativa vigente e dei relativi orientamenti giurisprudenziali.

Il comma 1 considera non espropriabili i beni demaniali, fino alla pronuncia di sdemanializzazione (similmente a quanto dispongono gli articoli 822, 823 e 824 del codice civile).

Il comma 2 considera espropriabili i beni patrimoniali indisponibili solo per perseguire un interesse pubblico di rilievo superiore rispetto a quello soddisfatto con la precedente destinazione.

Si è tenuto conto dell’orientamento giurisprudenziale per cui i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato e degli altri enti pubblici possono essere espropriati al fine del perseguimento di un interesse pubblico superiore rispetto a quello soddisfatto dalla attuale destinazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 aprile 1977, n. 439).

I commi 3 e 4 riguardano i beni appartenenti alla Santa Sede e gli edifici adibiti a sede del culto cattolico e degli altri culti, in relazione ai quali lo Stato italiano ha stipulato accordi con le rispettive confessioni religiose: le disposizioni recepiscono le norme vigenti, contenute nelle leggi di ratifica degli accordi tra lo Stato italiano e le confessioni religiose (tra cui l’articolo 16, primo comma, della legge n. 810 del 1929; l’articolo 5, della legge 25 marzo 1985, n. 121; l’articolo 831, codice civile; articolo 16, comma 1, legge 22 novembre 1988, n. 516; articolo 11, comma 1, legge 22 novembre 1988, n. 517; articolo 15, comma 2, legge 8 marzo 1989, n. 101; articolo 17, legge 12 aprile 1995, n. 116; articolo 14, comma 1, legge 29 novembre 1995, n. 520).

Il comma 5 affronta in generale le questioni relative ai beni disciplinati dal diritto internazionale.

Poiché non è possibile la ricognizione delle norme internazionali in materia (spesso di natura consuetudinaria), si è preferito inserire nell’articolato una norma di mero rinvio mobile al diritto internazionale, sia esso generale o pattizio.

16.5. L’articolo 5 affronta il tema dell’ambito applicativo del testo unico nei confronti delle Regioni, a statuto ordinario e speciale, e delle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Si è tenuto conto dell’articolo 20, comma 2 della legge n. 59 del 1997 (come modificato dalla legge n. 340 del 2000 e per il quale, «nelle materie di cui all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, i regolamenti di delegificazione trovano applicazione solo fino a quando la regione non provveda a disciplinare autonomamente la medesima materia»),

e dell’articolo 7, comma 7, della legge n. 50 del 1999 (per il quale «le regioni a statuto ordinario regolano le materie disciplinate dai commi da 1 a 6 e dalle leggi annuali di semplificazione nel rispetto dei principi desumibili dalle disposizioni in essi contenute, che costituiscono principi generali dell’ordinamento giuridico. Tali disposizioni operano direttamente nei riguardi delle regioni fino quando esse non avranno legiferato in materia.

Entro due anni dall’entrata in vigore della presente legge, le regioni a statuto ordinario e le province autonome di Trento e Bolzano provvedono ad adeguare i rispettivi ordinamenti alle norme fondamentali contenute nella legge medesima».

Il comma 1 disciplina l’ambito applicativo nei confronti delle Regioni ordinarie ed è stato strutturato muovendo dalla considerazione che l’espropriazione è materia «strumentale» ad altre materie (opere pubbliche, urbanistica): per le materie in cui hanno competenza legislativa concorrente ex articolo 117 Cost., le Regioni ordinarie hanno anche il medesimo tipo di potestà legislativa in relazione alle espropriazioni.

Il medesimo comma chiarisce che la potestà legislativa concorrente (o ripartita) va esercitata nel rispetto sia dei principi generali dell’ordinamento giuridico, sia dei principi fondamentali della legislazione statale nei vari settori: nella materia espropriativa, le Regioni ordinarie possono legiferare nel rispetto di tali principi fondamentali e generali, desumibili dalle norme del testo unico.

I successivi commi 2 e 3 disciplinano l’ambito applicativo del testo unico nei confronti delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Dall’esame dei vari statuti speciali, emerge che le Regioni ad autonomia speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano non hanno tutte lo stesso tipo di competenza legislativa in materia di espropriazione.

In particolare, le Province autonome di Trento e di Bolzano, e le Regioni Sicilia e Trentino - Alto Adige, hanno «competenza legislativa esclusiva», e sono perciò tenute al rispetto delle norme fondamentali di riforma economico – sociale e dei principi generali dell’ordinamento giuridico, e non anche dei principi fondamentali di legislazione statale di settore [v. l’articolo 14, lettera s), del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455, di approvazione dello Statuto speciale per la Sicilia; v. l’articolo 4, numero 4), e l’articolo 11, numero 22, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 5, Statuto speciale per il Trentino – Alto Adige].

Invece, le altre Regioni a statuto speciale (Sardegna, Friuli – Venezia Giulia e Valle d’Aosta) in materia di espropriazione hanno «competenza legislativa concorrente», per cui sono tenute anche al rispetto dei principi fondamentali di legislazione statale di settore [v. articoli 3 e 4, lettera d), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, di approvazione dello Statuto speciale per la Sardegna; articoli 4 e 5, numero 11, della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1, di approvazione dello Statuto speciale della Regione Friuli – Venezia Giulia; articoli 2 e 3, lettera c), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4, di approvazione dello Statuto speciale per la Valle d’Aosta].

Sul presupposto che le disposizioni del testo unico si applicano direttamente alle Regioni ed alle Province autonome, il comma 4 detta una norma transitoria e residuale, in base alla quale esse si applicano finché le Regioni e le Province autonome non si adeguano con proprie leggi ai principi del testo unico.

In tema di rapporti tra legislazione statale e legislazione regionale o delle Province autonome, analoga normativa è già stata disposta con l’articolo 29 della legge n. 241 del 1990.

Nei commi 5 e 6 si è precisato che le Regioni e le Province autonome hanno competenza amministrativa in materia espropriativa nell’ambito delle altre materie ad esse trasferite o delegate.

Il comma 6 (mutuato dall’articolo 1, comma 3, della legge 11 febbraio 1994, n. 104) dispone che lo Stato può emanare, in relazione alle funzioni amministrative delle Regioni e delle Province autonome, atti di indirizzo e coordinamento, alla luce dell’articolo 2, legge n. 400 del 1988, e dell’articolo 8, lett. c), L. n. 59 del 1997 (come interpretati dalla sentenza della Corte costituzionale 14 dicembre 1998, n. 408).

16.6. L’articolo 6 riguarda la determinazione dell’ambito delle competenze.

Poiché l’espropriazione va considerata una materia «strumentale» alle opere o agli interventi cui è preordinata la ablazione dei beni, il comma 1 stabilisce che il procedimento espropriativo è attribuito alla competenza dell’amministrazione che realizza l’opera o intervento.

In tal modo, si stabilisce un principio «di simmetria», che può notevolmente contribuire a coordinare le azioni ed i tempi dei relativi procedimenti.

Il comma 2 elimina pertanto l’attuale residuale competenza del Prefetto (per gli interventi che superino l’interesse regionale) in ordine alla emanazione del decreto di espropriazione.

Dovendosi tenere conto delle sopravvenute normative in tema di dirigenza e di responsabile del procedimento, il comma 2 dispone che presso ciascun ente (che sia competente per le procedure espropriative) vada istituito un apposito ufficio per le espropriazioni, ovvero siano attribuite le competenze espropriative ad un ufficio preesistente, ma specificamente individuato.

Per le amministrazioni statali e gli altri enti per i quali si applica il decreto legislativo n. 29 del 1993, l’ufficio può essere istituito e organizzato secondo i criteri stabiliti dai rispettivi ordinamenti.

Per gli enti locali, si applicano le disposizioni del testo unico sugli enti locali n. 267 del 2000, in base al quale l’organizzazione degli uffici è disciplinata con regolamento, di competenza del Consiglio [articoli 88, comma 2, e 42, comma 2, lett. a)].

Il comma 3 riguarda i casi in cui le Regioni e le Province autonome, in materia espropriativa, esercitano poteri propri o delegati da una amministrazione statale: in entrambi i casi, si determina il principio per cui tali enti possono emanare tutti gli atti dei procedimenti espropriativi strumentali alla cura degli interessi da essi gestiti.

Il comma 4 prevede la possibilità, per gli enti locali, di istituire un ufficio comune per le espropriazioni, ovvero costituirsi in un consorzio o in un’altra forma associativa, prevista dalla legge.

Il comma 5 stabilisce che all’ufficio è preposto un dirigente o, in mancanza di dirigenti, il funzionario più elevato in grado. La flessibilità della norma è dovuta alle diverse realtà degli enti locali.

Il comma 6, in coerenza con la legge n. 241 del 1990, stabilisce che per ciascun procedimento espropriativo è designato un responsabile, che dirige, coordina e cura tutte le operazioni e gli atti del procedimento, se necessario avvalendosi dell’ausilio di tecnici.

Il comma 7 comporta che, per tutte le amministrazioni pubbliche, la competenza ad adottare il decreto di espropriazione è attribuita al dirigente dell’ufficio per le espropriazioni, in coerenza con la nuova disciplina della dirigenza, che attribuisce ai dirigenti la competenza ad adottare provvedimenti esterni (v. l’articolo 17 del decreto legislativo n. 29 del 1993 e l’articolo 107, comma 2, del testo unico n. 267 del 2000).

Il comma 8 riguarda i casi in cui l’opera vada realizzata da un concessionario.

La regola generale comporta che l’amministrazione concedente sia competente ad emanare gli atti del procedimento espropriativo. Tuttavia, essa può delegare i propri poteri al concessionario, in tutto o in parte.

Per esigenze di trasparenza e rendere concretamente esercitabile la tutela degli interessati, si è previsto che l’ambito della delega debba essere specificato nell’atto della concessione e che gli estremi della concessione, quale fonte del potere espropriativo del concessionario, vadano indicati in ogni atto del procedimento espropriativo posto in essere dal concessionario.

16.7. L’articolo 7 indica le ulteriori particolari competenze dei Comuni in materia espropriativa: le sue lettere riportano le disposizioni degli articoli 18, 21, 22 e 23 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150.

Da tali articoli, sono state tratte le specifiche regole riguardanti la materia espropriativa, mentre le previsioni concernenti specificamente la pianificazione urbanistica saranno opportunamente riportate nel testo unico dell’urbanistica, pure previsto dalla legge n. 59 del 1997.

17. Il titolo secondo è suddiviso in quattro capi, alcuni dei quali distinti in sezioni.

Si è tenuto conto di esigenze schematiche e di chiarezza:

- il capo I riguarda la «identificazione delle fasi che precedono il decreto d’esproprio»;

- il capo II riguarda «la fase della sottoposizione del bene al vincolo preordinato

all’esproprio»;

- il capo III riguarda «la fase della dichiarazione di pubblica utilità» e si divide in tre sezioni, rispettivamente recanti «disposizioni sul procedimento», «disposizioni particolari sulla approvazione del progetto dell’opera» e «disposizioni sull’approvazione di un progetto di un’opera non conforme alle previsioni urbanistiche»;

- il capo IV riguarda «la fase di emanazione del decreto di esproprio» e si divide in due sezioni, rispettivamente riguardanti il «modo di determinare l’indennità di espropri azione» e il «decreto di esproprio»;

- il capo V riguarda il «pagamento dell’indennità di esproprio » e si divide in due sezioni, riguardanti le «disposizioni generali» e il «pagamento dell’indennità a incapaci, a enti e associazioni»;

- il capo VI riguarda l’«entità dell’indennità di espropriazione » e si divide in quattro sezioni, rispettivamente riguardanti le «disposizioni generali», le «opere private di pubblica utilità», la «determinazione dell’indennità nel caso di esproprio di un’area edificabile o edificata», e la «determinazione dell’indennità nel caso di esproprio di un’area non edificabile »;

- il capo VII riguarda le «conseguenze della utilizzazione di un bene per scopi di interesse pubblico, in assenza del valido provvedimento ablatorio»;

- il capo VIII riguarda l’«indennità dovuta al titolare del bene non espropriato »;

- il capo IX riguarda «La cessione volontaria»;

- il capo X riguarda «la retrocession

17.1. Al fine di consentire ad ogni amministratore la più schematica conoscenza dei principi che regolano il procedimento espropriativo, il capo I fa riferimento alle «fasi che precedono il decreto d’esproprio».

17.2. L’articolo 8 chiarisce una volta per tutte che il vincolo preordinato all’esproprio è il presupposto fondamentale per l‘ablazione della proprietà immobiliare.

Già nell’attuale sistema, il provvedimento di esproprio costituisce l’atto terminale di un terzo procedimento, collegato ad altri due precedenti procedimenti, che terminano rispettivamente con:

a) l’imposizione del vincolo preordinato all’esproprio (che concerne l’individuazione delle aree occorrenti);

b) la dichiarazione di pubblica utilità (che concerne il quid da realizzare sull’area, già individuata in sede di imposizione del vincolo).

L’articolo 8 tende ad affermare esplicitamente principi basilari già presenti nell’ordinamento, per lo più conosciuti dagli "addetti ai lavori", ma da chiarire in senso ‘didascalico’, affinché tutti gli amministratori ispirino ad essi la loro attività.

Pare preferibile un testo unico (in una ‘materia’ gestita da migliaia di Amministrazioni e di funzionari) che spieghi ‘punto per punto’ quali siano gli atti necessari per l’esproprio.

18. Il capo II riguarda «la fase della sottoposizione del bene al vincolo preordinato all’esproprio).

Già si è e sposto che:

- una delle più complesse questioni (che ha anche condotto alle sentenze della Corte Costituzionale sulla reiterazione del vincolo) attiene alla durata massima di 5 anni del vincolo preordinato all’esproprio (sancita dall’articolo 2 della legge n. 1187 del 1968), sicché il vincolo decade, se non vi è entro tale termine la dichiarazione di pubblica utilità; attualmente, la fase della imposizione del vincolo attiene alla programmazione urbanistica, che può aversi con lo strumento urbanistico generale, con una sua variante o con un atto di natura equivalente.

Questa fase appartiene però anche alla fase più propriamente espropriativa, perché:

a) la dichiarazione di pubblica utilità ed il procedimento espropriativo non possono radicalmente esservi se manca il vincolo in sede di programmazione;

b) poiché la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 55 del 1968) ha in sostanza affermato che il vincolo preordinato all’esproprio non può avere durata indeterminata, vi deve essere una durata massima della fase di attuazione del vincolo con la dichiarazione di pubblica utilità.

18.1. L’articolo 9, dunque, riguarda il vincolo preordinato all’esproprio.

Poiché tale nozione essenzialmente è di creazione giurisprudenziale, il comma 1 mira a darne una definizione ed a chiarire lo stretto rapporto intercorrente tra la pianificazione urbanistica e il procedimento espropriativo in senso stretto.

Il comma 2 evita alcuni degli inconvenienti che sovente si verificano nella prassi e, al fine di venire incontro alle esigenze della programmazione, consente che il piano urbanistico preveda che il vincolo preordinato all’esproprio possa sorgere su un’area privata solo a seguito dell’emanazione del programma dei lavori, previsto dall’articolo 14 della legge n. 109 del 1994.

L’Autorità urbanistica può così "non imporre subito" il vincolo preordinato all’esproprio, per non incorrere nella inevitabile decadenza per il decorso dei 5 anni.

In base al comma 2, si può disporre che il vincolo preordinato all’esproprio sorga soltanto con l’inserimento dell’opera nel programma triennale (o negli aggiornamenti annuali): in tal caso, fino all’inserimento dell’opera nel programma, il vero e proprio procedimento espropriativo (la c.d. seconda fase) non può esservi.

Per evitare che la previsione del piano urbanistico sulla realizzazione dell’opera incida a tempo indeterminato, la parte finale del comma 2 dispone che alla scadenza del triennio si intende apposto il vincolo preordinato all’esproprio.

Il comma 3 riguarda la durata del vincolo preordinato all’esproprio.

Valutati gli interessi coinvolti e in considerazione delle esigenze da soddisfare, si può ritenere opportuna una norma che elevi da 5 a 10 anni il termine massimo entro il quale va emanata la dichiarazione di pubblica utilità, proprio per contenere i casi in cui la decadenza del vincolo comporti la necessità della sua reiterazione.

Infatti, l’ordinamento già conosce altre ipotesi in cui vi è la durata decennale del vincolo preordinato all’esproprio, che di per sé non richiede un indennizzo (v. l’articolo 16 del t.u. sull’ordinamento urbanistico della Provincia di Bolzano).

Peraltro, in considerazione della spiccata valenza politica di una normativa generale sulla durata decennale del vincolo preordinato all’esproprio, è sembrato inopportuno elevare nell’articolato il termine a dieci anni (pur se si segnala al Governo la costituzionalità di un disegno di legge in tal senso).

Il ‘disegno’ a base dell’articolo 9 va però completato disciplinando dettagliatamente il caso il cui il piano urbanistico demandi al programma dei lavori il sorgere del vincolo preordinato all’esproprio: si è previsto il termine di tre anni, entro il quale il programma dei lavori deve adeguarsi al piano urbanistico, decorso il quale comunque comincia a decorrere l’ulteriore termine per attivare la c.d. seconda fase.

Il comma 4 si ispira alla costante giurisprudenza per la quale si applica l’articolo 4, ultimo comma, della legge n. 10 del 1977, nel caso di decadenza del vincolo preordinato all’esproprio.

Il comma 5 esplicita la regola, enunciata anche dalla Corte Costituzionale, per cui il vincolo preordinato all’esproprio può essere reiterato in base ad atti adeguatamente motivati.

Il comma 6 mira a semplificare il procedimento, quando il vincolo preordinato all’esproprio mira a realizzare un’opera (ad esempio, una scuola) e poi si ritiene che sia più conveniente realizzare una diversa opera pubblica (ad esempio, uffici pubblici). Il relativo procedimento tiene anche conto dell’articolo 1 della legge n. 1 del 1978 e mira ad una approvazione in tempi certi della adozione della variante, sancendo la necessità che un solo atto espresso del consiglio comunale, in difetto della formale approvazione, disponga l’efficacia della variante.

18.2. L’articolo 10 riguarda i «vincoli derivanti da atti diversi dai piani urbanistici generali».

In un’ottica acceleratoria, esso consente che il vincolo preordinato all’esproprio sia disposto con un atto di effetti equivalenti al piano urbanistico.

Il comma 1 tiene così anche conto delle varie leggi che hanno consentito sostanziali varianti al piano urbanistico, mediante atti di consenso tra amministrazioni, comunque denominati.

Il comma 2, in coerenza con l’articolo 9, comma 2, consente che l’atto avente effetti equivalenti al piano urbanistico si coordini col programma dei lavori.

18.3. L’articolo 11, in coerenza con la legge n. 241 del 1990, mira a rendere quanto più possibile tempestiva e rilevante la partecipazione del proprietario, senza rallentare il procedimento.

Mentre per la variante generale al piano urbanistico non si rende opportuna la trasmissione dell’avvio del procedimento, neppure in concreto possibile, nel caso di variante per la realizzazione di una singola opera pubblica l’avviso di avvio del procedimento appare coerente con i principi generali sul procedimento amministrativo.

La lettera b) del comma 1 tiene conto delle esigenze di celerità del procedimento, perché si tratta di atti che, per lo più, riguardano una serie di opere e, comunque, particolari procedimenti cui partecipano varie amministrazioni.

19. Il capo III del titolo II riguarda «la fase della dichiarazione di pubblica utilità» e prevede, nella sezione I, le «disposizioni sul procedimento».

19.1. L’articolo 12 elenca «gli atti che comportano la dichiarazione di pubblica utilità»

Il comma 1 si ispira al sistema attuale, per il quale la dichiarazione di pubblica utilità è il presupposto per l’emanazione del decreto di esproprio, ed individua gli atti con cui può essere dichiarata la pubblica utilità.

L’elencazione di tali atti è meramente esemplificativa, come emerge dal richiamo a tutte le leggi speciali che attribuiscono ad alcuni atti la produzione degli effetti della dichiarazione di pubblica utilità (ad es., l’articolo 113 del testo unico n. 1775 del 1933, sulla autorizzazione a costruire un elettrodotto).

19.2. L’articolo 13 («contenuto ed effetti dell’atto che comporta la dichiarazione di pubblica utilità») si ispira all’articolo 13 della legge n. 2359 del 1865, ma se ne discosta sotto molti aspetti, poiché non dispone che vadano fissati i tradizionali c.d. 4 termini (di inizio e compimento delle opere e delle operazioni espropriative), di cui, per la più recente giurisprudenza, ha rilievo effettivo solo quello di ultimazione del procedimento, per l’emanazione del decreto di esproprio.

Il comma 1 (unitamente al comma 7) chiarisce che la dichiarazione di pubblica utilità può essere disposta prima che decada il vincolo preordinato all’esproprio.

E’ opportuna l’espressa enunciazione del principio, per evitare ogni incertezza.

I commi 2 e 3 si ispirano, come si è sopra osservato, all’articolo 13 della legge del 1865, senza ritenere essenziali i c.d. 4 termini.

L’unico termine rilevante è quello entro il quale va emesso il decreto di esproprio.

Per evitare che la mancata indicazione del termine influisca sulla legittimità degli atti successivi, e tenuto conto che il comma 5 fissa un termine finale per la conclusione del procedimento, si sono previste ‘norme paracadute’, impedendo che mere irregolarità, che neppure incidono sulla durata del procedimento, possano condurre all’annullamento degli atti.

Il comma 5 si ispira all’attuale articolo 13, secondo comma, della legge del 1865, in tema di proroga del termine.

Il comma 7 si riferisce alla normativa, di rilievo anche urbanistico, che consente l’esproprio delle aree in attuazione di p.e.e.p. o di p.i.p., entro termini maggiori (rispettivamente 18 o 10 anni).

Il comma 8 tiene conto dei casi in cui l’area va espropriata non per realizzare un’opera, ma per esigenze di conservazione: l’atto che dichiara la pubblica utilità certo non approva un ‘progetto’, ma contiene i relativi elementi essenziali.

19.3. L’articolo 14 prevede l’istituzione di elenchi presso le autorità aventi poteri (anche di vigilanza) nella materia espropriativa, al fine:

- di responsabilizzare le autorità che hanno competenze in materia;

- di avere un quadro sempre completo ed aggiornato sullo stato dei procedimenti;

- di poter facilmente realizzare indagini statistiche, anche al fine di coordinare la spesa pubblica.

In tal modo, è prevedibile che la formazione di archivi, anche informatici, stimoli il rispetto dei termini previsti per i vari procedimenti, anche in base ad un vero e proprio sistema ‘di scadenziere’.

20. La sezione II del titolo II reca «disposizioni particolari sulla approvazione del progetto definitivo dell’opera».

20.1. L’articolo 15 reca «disposizioni sulla redazione del progetto».

Esso si ispira largamente agli articoli 3, 4, 7 e 8 della legge del 1865, ma se ne discosta, oltre per le notevoli modifiche lessicali, perché sono previste modalità che tengono conto delle esigenze di partecipazione del proprietario.

20.2. L’articolo 16 riguarda «le modalità che precedono l’approvazione del progetto

definitivo».

Anche i primi 11 commi dell’articolo si ispirano agli articoli 3-8 della legge del 1865, pur con notevoli modifiche sotto il profilo lessicale e per la valorizzazione delle esigenze di partecipazione.

Il comma 12 si ispira all’articolo 22 della legge del 1865.

20.3. L’articolo 17 riguarda «l’approvazione del progetto definitivo», e cioè l’atto che

dichiara la pubblica utilità.

Esso si ispira agli articoli 9-23 della legge del 1865, peraltro innovando notevolmente.

Il comma 1, alla lettera a), consente al proprietario di venire comunque a conoscenza degli estremi dell’atto che ha disposto il vincolo preordinato all’esproprio, mentre la lettera b) subordina l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità all’assenso delle altre autorità competenti ad emanare atti che abilitano alla realizzazione dell’opera.

Il comma 2 implica che costituisce una mera irregolarità la mancata espressa indicazione della dichiarazione di pubblica utilità, purché siano rispettate le prescrizioni del comma 1.

Il comma 3 mira a consentire la piena partecipazione dell’interessato, anche al fine di determinare correttamente l’indennità di esproprio.

21. La sezione III del titolo II riguarda «l’approvazione di un progetto di un’opera non conforme alle previsioni urbanistiche».

21.1. L’articolo 18 riguarda le c.d. operazioni preliminari, necessarie quando si intende redigere il progetto, quando non vi è ancora il vincolo preordinato all’esproprio.

21.2. L’articolo 19 riguarda il procedimento di variante del piano urbanistico, quando si renda necessaria per realizzare l’opera.

Il comma 1 concerne la adozione della variante.

Il comma 2 riguarda la adozione della variante, per l’opera non di competenza comunale.

Il comma 3 si basa sulla necessità dell’approvazione della variante.

Il comma 4 mira ad acquisire in tempi certi l’approvazione regionale, in coerenza con l’articolo 9, comma 6.

22. Il capo IV del titolo II riguarda «la fase di emanazione del decreto di esproprio» e prevede una innovativa disciplina del procedimento di determinazione e del pagamento della indennità di espropriazione.

Le principali innovazioni riguardano:

a) l’unificazione dei diversi procedimenti di cui alla legge n. 2359 del 1865 e alla legge n. 865 del 1971;

b) l’eliminazione delle attuali competenze prefettizie e del tribunale, con la concentrazione del procedimento in capo all’ufficio per le espropriazioni, interno a ciascun ente titolare del potere espropriativo;

c) la normativa generale sulla indennità provvisoria;

d) la soppressione della figura dell’accordo amichevole, che, sebbene ontologicamente diverso dalla cessione volontaria (perché sostituisce solo il subprocedimento di determinazione dell’indennità, a differenza della cessione volontaria, che sostituisce l’intero procedimento espropriativo), è un inutile duplicato, di scarsa utilità pratica;

e) l’unificazione della normativa sul giudizio di opposizione alla stima e ricondurlo alla unica regola della competenza della corte d’appello.

Il procedimento di determinazione e di pagamento dell’indennità di espropriazione si snoda attraverso i seguenti passaggi:

- l’offerta dell’indennità da parte del promotore della espropriazione;

- la determinazione dell’indennità provvisoria prima dell’emanazione del decreto di espropriazione;

- l’accettazione da parte dell’espropriando dell’indennità provvisoria;

- nel caso di accettazione, il pagamento dell’indennità;

- nel caso di mancata accettazione e mancato accordo sull’indennità, il deposito della stessa presso la Cassa depositi e prestiti;

- nel caso di mancata accettazione e mancato accordo sull’indennità, la determinazione peritale dell’indennità;

- a seguito della determinazione peritale dell’indennità, l’ordine di pagamento o di deposito della stessa presso la Cassa depositi e prestiti;

- a seguito degli adempimenti sub 6) e 7), l’emanazione del decreto di esproprio;

- l’emanazione del decreto di esproprio anche a seguito della determinazione urgente della indennità di espropriazione, in casi di particolare urgenza, tale da non consentire l’applicazione del procedimento di determinazione provvisoria dell’indennità.

22.1. L’articolo 20 riguarda «la determinazione provvisoria dell’indennità di espropriazione».

Il procedimento si ispira largamente agli articoli 24 e seguenti della legge del 1865, ma vi sono disposizioni notevolmente innovative.

Il comma 1 prevede la compilazione dell’elenco dei beni da espropriare una volta divenuto efficace l’atto che dichiara la pubblica utilità.

Sono innovativamente stabilite la notifica individuale dell’elenco (in luogo dell’attuale deposito previsto dall’articolo 24, comma 2, della legge n. 2359 del 1865) e la partecipazione procedimentale, in ossequio alla legge n. 241 del 1990.

Il comma 2 mira a deflazionare il contenzioso riguardante la determinazione dell’indennità e a incentivare la cessione volontaria.

Esso prevede la facoltà dell’autorità espropriante, compatibilmente con le esigenze di celerità del procedimento, di invitare il proprietario ed eventualmente il beneficiario dell’espropriazione, ad indicare il valore dell’area, al fine della determinazione dell’indennità di esproprio.

Con i commi 3 e 4, viene generalizzato l’istituto dell’indennità provvisoria, di cui all’articolo 11 della legge n. 865 del 1971.

Il comma 3 consente all’autorità espropriante di avvalersi di vari uffici, tra cui l’ufficio tecnico erariale, per determinare in via provvisoria l’indennità.

Tale determinazione è particolarmente importante, perché consente di emettere senz’altro il decreto di esproprio.

Il comma 5 trae spunto dall’attuale articolo 12, secondo comma, della legge n. 865 del 1971 e, nel caso di condivisione dell’importo determinato dall’autorità espropriante, prevede la conclusione dell’accordo di cessione.

Si è prevista la irrevocabilità della dichiarazione che accetta l’indennità, per evitare lungaggini procedimentali e il relativo contenzioso, superandosi un contrario orientamento della giurisprudenza.

Il comma 6, nella parte in cui prevede la facoltà del proprietario di subordinare l’accettazione dell’indennità provvisoria all’accoglimento delle proprie osservazioni, trae spunto dall’attuale articolo 25, comma 3, della legge n. 2359 del 1865.

Il comma 7 dispone che la somma vada corrisposta rapidamente al proprietario (similmente a quanto disposto dall’articolo 12, terzo comma, della legge n. 865 del 1971, e dall’articolo 30, primo comma, della legge n. 2359 del 1865).

Il comma 8 prevede l’obbligo di concludere l’accordo di cessione volontaria del bene nel caso in cui vi sia condivisione dell’indennità di espropriazione, o in caso di rifiuto di contrarre, l’emanazione senza altre formalità del decreto di espropriazione.

Il comma 9 prevede la trascrizione nei registri immobiliari dell’accordo di cessione volontaria.

Il comma 10 prevede che, in caso di mancato accordo sull’indennità di espropriazione, la somma dovuta viene è del 40 per cento ed è depositata presso la Cassa depositi e prestiti.

22.2. L’articolo 21 riguarda «il procedimento di determinazione definitiva dell’indennità di espropriazione».

Il comma 1 trae spunto dall’attuale articolo 31 della legge n. 2359 del 1865.

Con i commi da 2 a 4, si unifica e si innova il procedimento di determinazione dell’indennità, che attualmente è così articolato: la legge n. 2359 del 1865 prevede la determinazione dell’indennità da parte di uno o tre periti nominati dal tribunale, mentre la legge n. 865 del 1971 (applicabile solo per le aree inedificate) prevede la determinazione dell’indennità da parte di un’apposita commissione nominata dalla Regione.

L’articolo 21 dispone che, se concorda il proprietario, vi sia un vero e proprio giudizio arbitrale, mediante la nomina di un perito da parte dell’autorità espropriante, di un perito designato dal proprietario e di un terzo perito, nominato dal presidente del tribunale civile.

Per ragioni di trasparenza, è previsto che il perito nominato dall’autorità espropriante e quello nominato dal presidente del tribunale siano scelti nell’albo dei periti e consulenti tecnici del tribunale civile nella cui circoscrizione si trova il bene, ovvero tra i professori universitari, anche associati, di estimo.

Con il comma 5, in ordine alle spese per la nomina dei tecnici, è sostanzialmente riprodotto l’articolo 37 della legge n. 2359 del 1865, con adeguamenti lessicali.

Con i commi 6 e 7, a differenza del l’articolo 36 della legge n. 2359 del 1865 (che non prevede alcuna formale partecipazione procedimentale alle operazioni peritali), sono previsti l’avviso dell’avvio del procedimento e la possibilità di partecipazione.

Il comma 8 riproduce in parte l’articolo 35 della legge n. 2359 del 1865.

Con i commi 9 e 10, è in parte riprodotto l’articolo 48 della legge n. 2359 del 1865.

Innovativamente, si prevede che la relazione di stima sia posta a disposizione degli interessati, che possono prenderne visione ed estrarne copia.

Il comma 11 riproduce l’articolo 49 della legge n. 2359 del 1865.

Il comma 12 riproduce sostanzialmente l’articolo 38 della legge n. 2359 del 1865.

Il comma 13 attua il raccordo con l’articolo 41, poiché, qualora il proprietario non voglia addivenire alla procedura arbitrale, l’indennità è determinata dalla commissione competente a quantificare il valore agricolo medio.

22.3. L’articolo 22 ha carattere innovativo ed ha una propria portata applicativa per i casi in cui vada senz’altro emesso il decreto di esproprio, anche senza attendere l’esito del procedimento volto a determinare l’indennità di esproprio.

Esso prevede la possibilità di determinazione urgente dell’indennità di espropriazione, senza particolari indagini o formalità.

Inoltre, tale determinazione è coordinata con la possibilità di addivenire alla cessione volontaria del bene, ovvero di chiedere la nomina dei tecnici per la determinazione definitiva dell’indennità.

24. La sezione II riguarda il «decreto di esproprio».

24.1. L’articolo 23 riguarda il suo contenuto ed i suoi effetti.

Esso si ispira agli articoli 47-51 della legge del 1865, ma se ne discosta sotto alcuni aspetti.

L’aspetto più importante riguarda gli effetti ablatori, che non si producono per il solo fatto che è emanato il decreto, ma a seguito della sua esecuzione mediante l’immissione in possesso.

Il comma 1, lettera f), prevede una condicio iuris, per la quale l’effetto traslativo si determina con l’esecuzione del decreto.

Con tale previsione si rende concreta la regola per cui l’Amministrazione realizza l’opera sull’area oramai sua, con estinzione di gran parte delle ipotesi di occupazione appropriativa, si ottengono risparmi, si riducono le ipotesi di retrocessione e si riduce il contenzioso.

Il comma 2 è coerente con la scelta di sopprimere il tradizionale istituto della occupazione d’urgenza.

E’ noto che la legge del 1865 ammetteva l’occupazione e la modificazione dell’area solo dopo l’emanazione del decreto di esproprio: nella prassi, si affermò l’ordinanza di occupazione, che si caratterizzava per l’ulteriore riscontro dei caratteri della indifferibilità e dell’urgenza.

Successivamente, a partire dal 1879 le leggi hanno distinto:

- i procedimenti riguardanti la dichiarazione di pubblica utilità;

- i procedimenti riguardanti la dichiarazione di indifferibilità ed urgenza (con competenze, a seconda dei vari periodi, del Ministro per i lavori pubblici, del Consiglio superiore dei lavori pubblici, ecc.), che si concludono con l’ordinanza di occupazione preordinata all’esproprio (attribuita alla competenza di una autorità diversa da quella competente ad emettere il decreto di esproprio).

Varie leggi, però, a partire dal 1923 hanno disposto che l’approvazione dei progetti di opere pubbliche comportasse l’effetto della c.d. doppia approvazione: poi la regola è stata generalizzata dall’articolo 1 della legge n. 1 del 1978.

In tal modo, si è verificato che (in contrasto con l’originario disegno della legge del 1865) l’Amministrazione prima occupa d’urgenza l’area e realizza l’area, mentre solo in seguito, dopo l’alterazione dello stato dei luoghi, emette il decreto di esproprio.

La distinzione tra l’occupazione preordinata all’esproprio e il decreto di esproprio ha comportato la sistematica emanazione dei decreti di occupazione d’urgenza, il sistematico inizio dei lavori prima dell’adozione del decreto di esproprio, la proliferazione del contenzioso e dei casi di patologia dell’azione amministrativa (si pensi a tutte le controversie sorte nel caso di tardiva esecuzione dell’ordinanza di occupazione d’urgenza e nel caso di assenza del verbale di consistenza), con ‘esplosione’ dei casi di ‘occupazione senza titolo’.

Per la giurisprudenza della Corte di Cassazione:

- sino al 1983, il proprietario non poteva esercitare le azioni petitorie e possessorie, previste dal codice civile, ostandovi l’articolo 4 dell’allegato E della legge di unificazione del 1865, come allora era interpretato;

- dal 1983, ha ammesso (in presenza dei presupposti più volte indicati dalle Sezioni Unite) che l’Amministrazione acquisti la proprietà dell’area, in base all’istituto della c.d. occupazione appropriativa (rilevante quando l’opera sia stata realizzata sul bene altrui mediante una patologia della azione amministrativa).

Al fine di ridurre (per quanto possibile) i casi di illegittimità dell’azione amministrativa e considerato che le varie normative di settore considerano di per sé urgente la realizzazione di un’opera pubblica, è conveniente il ritorno alla regola prevista dalla legge del 1865, e conosciuta dalla maggior parte degli altri Paesi, per cui l’Amministrazione prima diventa proprietaria dell’area e poi realizza l’opera.

Il ritorno a tale regola consente di eliminare di netto molteplici ipotesi di ‘occupazione appropriativa’ (ovvero di quella ‘acquisitiva’).

Il comma 2 riproduce l’articolo 53 della legge n. 2359 del 1865.

Il comma 5 riproduce gli articoli 54 della legge del 1865 e l’articolo 13, comma 2, della legge n. 865 del 1971.

La pubblicità nel FAL è sostituita con quella nella Gazzetta Ufficiale, in coerenza con quanto disposto dalla legge n. 340 del 2000.

24.2. L’articolo 24 riguarda l’«l’esecuzione del decreto di esproprio».

Il comma 1 fissa la regola per cui l’esecuzione del decreto di esproprio si ha con la sua immissione in possesso, che comporta anche l’effetto ablatorio.

Il comma 2 evita le questioni sorte circa le modalità di redazione dello stato di consistenza, che costituiva un c.d. presupposto di legittimità dell’ordinanza di occupazione d’urgenza nel sistema della legge del 1865.

Le successive leggi (in particolare, l’articolo 3 della legge n. 1 del 1978 e l’articolo 121 del testo unico n. 267 del 2000) hanno consentito l’emanazione dell’ordinanza di occupazione d’urgenza anche prima della redazione dello stato di consistenza.

In relazione all’articolo 3 della legge n. 1 del 1978, va segnalata la giurisprudenza, anche dell’Adunanza Plenaria, per cui nell’ambito del concetto di opera pubblica non potevano rientrare le opere di pubblica utilità, quali gli alloggi da realizzare in base ad un p.e.e.p.

L’articolo 121 del testo unico n. 267 del 2000 ha poi ammesso che anche per la realizzazione di tali alloggi lo stato di consistenza possa seguire l’emanazione dell’ordinanza di occupazione.

La richiamata normativa e la relativa giurisprudenza perdono rilievo, in un sistema che non conosca più la figura dell’occupazione preordinata all’esproprio.

Tuttavia, poiché in base all’articolo 23 il decreto di esproprio acquista efficacia a seguito della sua esecuzione e della immissione in possesso, è indispensabile chiarire cosa debba intendersi per esecuzione.

Il comma 2 dispone, quindi, che lo stato di consistenza possa anche essere redatto dopo la compilazione del verbale di immissione in possesso, purché prima della modifica dello stato dei luoghi.

Il comma 3 prevede garanzie di partecipazione per il proprietario e gli altri interessati.

Il comma 4 evita le questioni sorte nella prassi quando vi sono le formalità di acquisizione del possesso dell’area, ma la sua disponibilità è ancora materialmente lasciata al proprietario o all’affittuario, ad esempio perché la complessità dell’opera comporta che la medesima area non serva immediatamente.

I commi 5 e 6 si riferiscono alle formalità da rispettare dopo l’immissione in possesso, in coerenza con i precedenti articoli 23 e 14.

24.3. L’articolo 25, sugli «effetti dell’espropriazione per i terzi», si ispira alle disposizioni generali della legge n. 2359 del 1865 e all’articolo 14 della legge n. 865 del 1971.

25. Il capo V riguarda «il pagamento dell’indennità di esproprio ».

25.1. La sezione I riguarda le «disposizioni generali».

25.2. L’articolo 26 riguarda il «pagamento o deposito dell’indennità provvisoria ».

Con esso, sono coordinati (con alcune innovazioni) l’articolo 30 della legge n. 2359 del 1865 e gli articoli 12 e 13 della legge n. 865 del 1971.

I commi 1 e 2 attribuiscono all’autorità espropriante la competenza ad ordinare il pagamento o il deposito dell’indennità.

Il comma 6 riproduce l’articolo 12, quarto comma, della legge n. 865 del 1971.

Il comma 7 si ispira all’articolo 30, secondo comma, della legge del 1865, ma prevede la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e non nel FAL (in coerenza con la legge n. 340 del 2000).

Il comma 10 si ispira all’articolo 13, comma 1, della legge n. 865 del 1971 e chiarisce che, se l’indennità è stata determina ta con la perizia di stima, il soggetto promotore deve pagare la somma entro il termine stabilito dal decreto che ordina il pagamento, a meno che non proponga opposizione alla stima (secondo quanto chiarito da Corte cost., 22 aprile 1991, n. 173).

25.3. L’articolo 27 riguarda il «pagamento o deposito definitivo dell’indennità a seguito della perizia di stima».

Esso si ispira all’articolo 30 della legge n. 2359 del 1865 e all’articolo 12 della legge n. 765 del 1971.

25.4. L’articolo 28 riguarda il «pagamento definitivo della indennità».

Con esso, sono stati unificati, coordinati e modificati l’articolo 55 della legge n. 2359 del 1865, l’articolo 1 della legge 3 aprile 1926, n. 686, e l’articolo 12, comma 6, della legge n. 865 del 1971.

Innovativamente, non si è disposta la competenza del tribunale a ordinare lo svincolo delle somme e si è previsto un procedimento interno all’autorità espropriante, per il quale lo svincolo è disposto dal dirigente dell’ufficio per le espropriazioni, su istanza documentata di parte, dopo l’audizione delle parti, l’istruttoria e la proposta del responsabile del procedimento.

25.5. L’articolo 29 riguarda il «pagamento dell’indennità a seguito di procedimento giurisdizionale» e riproduce l’articolo 56 della legge n. 2359 del 1865, con alcuni adeguamenti lessicali.

26. La sezione II riguarda il «pagamento dell’indennità a incapaci, a enti e associazioni ».

26.1. L’articolo 30 riproduce l’articolo 57 della legge n. 2359 del 1865, con alcuni adeguamenti lessicali.

26.2. L’articolo 31 riproduce, con adeguamenti lessicali, gli articoli 58 e 59 della legge n. 2359 del 1865.

26.3 Il capo VI disciplina i criteri di computo dell’indennità di esproprio, procedendo, sulla scorta delle coordinate prima esposte in tema di limiti del raggi di azione riconosciuto al testo nella materia in esame, ad un coordinamento, formale e sostanziale, della vigente disciplina.

La Sezione I detta disposizioni generali.

L’articolo 32 fissa i criteri generali sulla determinazione del valore del bene (e riporta il contenuto dell’articolo 5 bis del decreto legge n. 333 del 1992 e dell’articolo 42 della legge n. 2359 del 1865).

Esso, al primo comma, enuncia il principio (v. Corte Cost. 16 giugno 1993, n. 283; Cass. Sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1987; Cass., Sez. I, 15 gennaio 2000, n. 425) della irrilevanza del vincolo preordinato all’esproprio ai fini della determinazione del valore dell’area in sede di computo dell’indennità (sotto il duplice profilo del depotenziamento delle possibilità edificatorie e della deminutio di valore del bene).

Tale principio, ovviamente, rileva solo quando assuma rilievo, nei casi successivamente specificati, il valore commerciale del bene (e dunque per le aree edificabili, per quelle legittimamente edificate e per interventi privati di pubblica utilità).

Si chiarisce, inoltre, che il principio dell’insensibilità del calcolo del valore rispetto alla procedura di espropriazione riguarda anche il caso dell’ablazione di un diritto diverso dal diritto di proprietà.

Il secondo ed il terzo comma riproducono sostanzialmente l’articolo 43, primo e secondo comma, della legge n. 2359 del 1865.

In particolare, il terzo comma estrapola il principio dettato dal secondo periodo del primo comma dell’articolo 43 della legge del 1865, che riguarda il diritto dell’espropriato di asportare a sue spese i materiali e tutto ciò che può essere tolto senza pregiudizio dell’opera da realizzarsi.

Risulta altresì riprodotto il secondo comma dell’articolo 43, che in presenza di migliorie pone una presunzione, dal punto di vista temporale, rapportata al momento della comunicazione dell’avvio del procedimento.

26.4. L’articolo 33 riproduce i principi espressi dagli articoli 40 e 41 della legge del 1865, in tema di espropriazione parziale e di pregiudizio arrecato al soggetto espropriato.

Si prende atto, al riguardo, del pacifico orientamento (Cass., Sez. I, 18 febbraio 2000, n. 1806; Cass., Sez. Un., 26 settembre 1997, n. 8478) per il quale la disciplina sull’espropriazione parziale, pur se letteralmente ancorata al criterio del giusto prezzo previsto dall’articolo 39 della legge fondamentale, costituisce espressione di principi generali, applicabili anche per l’esproprio di aree agricole.

Il primo comma riproduce l’articolo 40 della legge del 1865, con un testo che consente la sua applicabilità a tutte le tipologie di aree, e puntualizza che si deve trattare di un bene unitario (Cass., Sez. I, 10 luglio 1998, n. 6722; Cass., Sez. I, 9 aprile 1997, n. 561).

Il secondo, il terzo ed il quarto comma riproducono l’articolo 41, primo e secondo comma, della legge del 1865, per il caso in cui dall’esecuzione dell’opera derivi un vantaggio immediato e speciale in favore del proprietario dell’area.

26.5. L’articolo 32 riproduce, con correttivi puramente formali, i principi desumibili da alcune norme della legge del 1865 e della legge del 1971.

Il primo comma riproduce l’articolo 27, primo e secondo comma, della legge del 1865.

Il secondo comma si ispira all’articolo 14 della legge n. 865 del 1971 e all’articolo 52, secondo comma, della legge del 1865, di cui estende i principi alla figura della cessione volontaria .

Il terzo comma riproduce l’articolo 44, primo comma, della legge del 1865.

Il quarto comma riproduce, adattandola, la formulazione dell’articolo 27, terzo comma, della legge del 1865 e sancisce la legittimazione degli usufruttuari, dei conduttori e degli altri titolari di diritti ad agire in sede di opposizione alla stima e ad intervenire nel giudizio promosso dal proprietario (Cass., sez. unite civili, 8 giugno 1998, n. 5609).

26.6. L’articolo 35 riproduce, con alcuni correttivi formali, l’articolo 11, commi da 5 ad 8, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, come integrato dall’articolo 21, comma 15, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (sulla cui legittimità costituzionalità si è pronunciata a Corte Costituzionale: sent. 27 luglio 1995, n. 410; ord. 24 ottobre 1995, n. 452; ord. 3 aprile 1996, n. 100).

27. La Sezione II consta del solo articolo 36 e riguarda l’indennità dovuta nel caso di espropriazione funzionale alla realizzazione di un’opera privata di pubblica utilità.

Con esso si è preso atto dell’ultravigenza del criterio del valore venale previsto di cui all’articolo 39 della legge del 1865, per le opere private di pubblica utilità.

Tale criterio non stato inciso dall’articolo 5 bis, comma 1, del decreto legge n. 333 del 1992, che ha tenuto conto delle esigenze della finanza pubblica e non si è riferito all’esproprio disposto per realizzare le opere private.

28. La Sezione III è dedicata alla disciplina dell’indennità in caso di esproprio di aree edificabili o legittimante edificate.

28.1. L’articolo 37, ai primi due commi, riproduce il criterio di computo dell’articolo 5 bis del decreto legge n. 333 del 1992 in tema di esproprio di aree edificabili (chiarendo che il secondo parametro di riferimento è dato dal reddito dominicale rivalutato dell’ultimo decennio: Cass. 20 giugno 2000, n. 8388).

In considerazione della costante giurisprudenza (v. Cass., Sez. I, 13 dicembre 1999, n. 13945; 11 dicembre 1998, n. 5821; 29 ottobre 1999, n. 12176; v. anche Corte Cost. 11 luglio 2000, n. 262, sulla costituzionalità dell’assetto normativo) , il secondo comma prevede che la riduzione del 40% non operi quando l’accordo di cessione non è concluso per effetto di una condotta non imputabile all’espropriato, quando l’espropriante abbia effettuato una offerta da considerare incongrua.

Per porre regole certe e deflazionare notevolmente il contenzioso, si prevede un margine (pari ai due decimi) di differenza ‘giustificabile’ tra l’indennità provvisoria e quella definitiva, al fine di discriminare il rifiuto giustificato da quello ingiustificato da parte dell’espropriato.

Il parametro dei due decimi ha tenuto conto anche delle possibili difficoltà di determinazione dell’indennità. Se, in relazione ai beni esistenti e ben caratterizzati, le perizie di valutazione sono in genere considerate attendibili se si avvicinano al valore reale con una oscillazione più o meno del dieci per cento, nel caso in esame sussistono notevoli difficoltà di determinazione di un valore, il cui importo è rimesso ad una serie di complesse variabili.

Valutate le varie osservazioni, formulate anche durante i lavori della Commissione speciale, l’Adunanza Generale ha preferito introdurre un criterio volto a dare regole certe e a deflazionare il contenzioso, con riferimento al parametro dei due decimi.

I successivi commi da 3 a 6 riportano le disposizioni del citato articolo 5 bis, in tema di «possibilità legali ed effettive di edificazione ».

Al comma 3, si è precisato che in ogni caso non può assumere rilievo, ai fini dell’edificabilità di fatto, la costruzione di opere abusive, in coerenza col principio, espresso nell’articolo 38, che esclude ogni rilievo degli abusi edilizi ai fini del computo dell’indennità.

In considerazione della delicatezza della materia, e valutati gli orientamenti espressi al riguardo dalla Corte di Cassazione, si è preferito non innovare la disciplina sostanziale (come pure si sarebbe potuto, in considerazione della natura del testo unico) e si è riportato l’originario comma che ha rinviato per la determinazione della «edificabilità di fatto» ad un futuro regolamento del Ministero dei lavori pubblici.

Il comma 6 ha indicato un criterio rilevante, in attesa dell’adozione del regolamento ministeriale (le cui disposizioni, sotto il profilo formale e sostanziale, potranno anche sostituire i commi 5 e 6, che saranno conseguentemente abrogati, potendosi coordinare in tal modo la delegificazione già disposta dall’art. 5 bis con la successiva normativa in tema di riordino).

I commi 7 e 8 riproducono, con notevoli modifiche lessicali, l’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, che pone rilevanti regole per la determinazione del valore del bene, nel caso in cui siano state violate norme sulla dichiarazione dei redditi o sulla imposta comunale degli immobili.

L’articolo 16 (sulla cui costituzionalità si è espressa Corte Cost., 25 luglio 2000, n. 351) ha previsto conseguenze sfavorevoli per l’espropriato che abbia violato tale normativa.

Valutata la sua ratio, per esigenze di parità di trattamento si è assimilata la posizione di chi abbia dichiarato un valore contrastante con la normativa vigente a quella di chi, pur avendone l’obbligo, non abbia prodotto alcuna dichiarazione ai fini tributari.

Il comma 9 riporta l’articolo 17, secondo comma, della legge n. 865 del 1971, in tema di indennità aggiuntiva spettante al proprietario in caso di esproprio di aree ad uso agricolo.

28.2. L’articolo 38, al comma 1, prende atto dell’orientamento giurisprudenziale per il quale il citato articolo 5 bis concerne le sole aree edificabili e non anche quelle già edificate.

Per queste ultime, ha continuato a trovare applicazione il criterio del valore venale sancito dall’articolo 39 della legge fondamentale del 1865 (Cass., 24 novembre 1998, n. 1191; 4 novembre 1998, n. 11058; 10 luglio 1998, n. 6718).

Infatti, non è stata più seguita la tesi per cui, nel caso di specie, l’indennità andrebbe calcolata per l’area di sedime col criterio previsto dall’articolo 5 bis e per il soprasuolo col criterio del valore di scambio.

Il comma 2, con alcune modifiche formali, richiama il principio previsto dall’articolo 16, nono comma, della legge n. 865 del 1971, per le aree agricole urbanizzate ed edificate: il principio dell’irrilevanza delle costruzioni abusive, per la sua portata generale, riguarda anche le aree edificabili (Cass., Sez. I, 23 dicembre 1999, n. 13656, che ha anche precisato come non rilevi, sotto tale aspetto, la mancata dovuta esecuzione dell’ordine di demolizione).

28.3. L’articolo 39 mira a colmare un vuoto normativo, venutosi a creare a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1999, circa le conseguenze della legittima reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio.

Il comma 1 dispone che al proprietario, nei casi di reieterazione del vincolo o di ‘espropriazione di valore’, vada erogata una indennità, commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto.

Poiché il proprietario continua nel frattempo ad utilizzare la propria area, è stato previsto l’onere per il proprietario di dimostrare il danno effettivamente subito a causa della reiterazione del vincolo.

Il comma 2 evita che la mancata previsione dell’indennizzo renda illegittimo il provvedimento che reiteri il vincolo preordinato all’esproprio, di cui dunque disciplina le conseguenze.

Del resto, già l’Adunanza Plenaria (con la decisione n. 24 del 1999) ha ritenuto che la mancata previsione dell’indennizzo comporti l’annullamento degli atti che hanno reiterato il vincolo non integralmente o nella parte in cui hanno inciso sul bene, ma solo nella parte in cui l’indennizzo non sia stato previsto.

Pertanto, l’indennizzo è dovuto direttamente per legge e va corrisposto entro il termine di due mesi dalla data in cui il proprietario ha formulato la relativa domanda.

Decorso tale termine, sono dovuti gli interessi legali e comunque può essere adita la corte d’appello.

Il comma 5 esclude che si tenga conto della somma corrisposta a seguito della reiterazione del vincolo, quando poi il bene è espropriato.

Poiché la reiterazione del vincolo comporta una compressione delle facoltà del proprietario diversa ed ulteriore rispetto a quella dalle vicende che hanno caratterizzato il vincolo decaduto, si è prevista la regola del cumulo con l’indennità di esproprio. Qualora non si fosse seguita la regola del cumulo, la regola della scomputabilità dell’indennizzo da quanto dovuto a titolo di indennità di esproprio avrebbe vanificato la richiamata giurisprudenza costituzionale ed avrebbe reso sostanzialmente irrilevante la reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio, se relativo ad un’area poi espropriata.

29 La Sezione IV disciplina i criteri di computo dell’indennità in caso di esproprio di area non edificabile e si ispira alla legge n. 865 del 1971 (come modificata nel 1974 e nel 1977).

Come è stato ribadito dal citato articolo 5 bis, comma 4, la normativa del 1971 trova applicazione non solo per le aree agricole ma, più generalmente, per le aree non edificabili, in quanto il legislatore non ha individuato un tertium genus di aree, al fine di determinare l’indennità di esproprio.

29.1. L’articolo 40 detta le disposizioni generali.

Il comma 1 si ispira all’articolo 15 della legge n. 865 del 1971, riguardante l’esproprio del fondo effettivamente coltivato. Le previsioni dell’articolo 15, sugli aspetti organizzativo-procedimentali,

sono state riportate nel successivo articolo 41.

I commi 2 e 3 prevedono, invece, il criterio del valore agricolo medio per l’esproprio di un’area non effettivamente coltivata e per il computo dell’indennità provvisoria.

Non sono stati riprodotti il sesto comma e quelli seguenti dell’articolo 16 della legge del 1971, in quanto superati per effetto della sentenza n. 5 del 1980 della Corte Costituzionale.

Il comma 3 prende atto della giurisprudenza per la quale l’articolo 17 della legge n. 865 del 1971, in tema di indennità aggiuntiva spettante al coltivatore diretto, si applica anche quando il proprietario abbia la qualifica di coltivatore diretto: in tale caso va indennizzato l’autonomo pregiudizio derivante dalla perdita della fonte di sostentamento data dalla coltivazione del fondo (Cass., Sez. I, 27 aprile 1999, n. 4191).

Il comma 4 si ispira all’articolo 16, ultimo comma, della legge n. 865 del 1971, per il quale l’indennità va aumentata delle somme pagate dall’espropriato per qualsiasi imposta relativa all’ultimo trasferimento dell’immobile.

29.2. L’articolo 41 riproduce l’articolo 16, dal primo al quarto comma, della legge n. 865 del 1971, in materia di composizione e compiti della commissione provinciale incaricata di stabilire annualmente il valore agricolo medio, ai fini del computo dell’indennità per le aree non edificabili.

Il comma 3 ha sostituito la figura dell’intendente di finanza, ormai superata sul piano positivo, con quella del dirigente dell’Ufficio distrettuale delle imposte.

29.3. L’articolo 42 disciplina le indennità aggiuntive riproduce l’articolo 17, secondo comma e seguenti, della legge n. 865 del 1971.

29.4. L’articolo 43 mira ad eliminare la figura, sorta nella prassi giurisprudenziale, della occupazione appropriativa o espropriazione sostanziale (c.d. accessione invertita), nonché quella della occupazione usurpativa (alla quale, per la più recente giurisprudenza, non si applicano le vigenti disposizioni dell’articolo 5 bis della legge n. 359 del 1992, sulla riduzione del quantum dovuto a titolo di risarcimento del danno).

Come già sopra osservato, la riforma sembra essenziale, perché l’ordinamento deve adeguarsi ai principi costituzionali ed a quelli generali del diritto internazionale sulla tutela della proprietà.

La Corte europea dei diritti dell’uomo (con la sentenza della Sez. II, 30 maggio 2000, ric. 31524/96) ha affermato che l’istituto, come affermatosi nell’ordinamento italiano, è contrario con l’articolo 1 del prot. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

L’articolo 43 attribuisce all’Amministrazione il potere di emanare un atto di acquisizione dell’area al suo patrimonio indisponibile (con la peculiarità che non viene meno il diritto al risarcimento del danno), in base ad una valutazione discrezionale, sindacabile in sede giurisdizionale.

Considerato che in materia di espropriazione, in presenza di un illecito della pubblica amministrazione (o di un soggetto per legge equiparato), sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, si prevede una particolare disciplina sostanziale e processuale, per il caso in cui il proprietario chieda la tutela del diritto di proprietà, con una azione petitoria o d’urgenza.

Il giudice amministrativo può così complessivamente valutare la fondatezza della pretesa dell’Amministrazione (ad esempio, se in assenza del decreto di esproprio è stato realizzato un marciapiede, non può escludersi la restituzione dell’area, se vi è un ampliamento dell’altro lato della strada: cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12 luglio 1996, n. 874).

30. L’articolo 44, inserito nel capo VIII, riguarda l’indennità di asservimento (dovuta, in base al comma 3, anche nel caso di cessione volontaria) e riproduce l’articolo 46 della legge fondamentale del 1865, in tema di indennità di asservimento.

In particolare, il comma 2 ha enunciato un principio affermatosi in giurisprudenza per il computo dell’indennità (Cass., Sez. Un. 26 febbraio 1999, n. 104; Cass., Sez. I, 14 maggio 1998, n. 1027).

Il comma 5 si ispira all’articolo 45 della legge n. 2359 del 1865, sulla non indennizzabilità di una servitù suscettibile di conservazione o di trasferimento.

31. L’articolo 45, inserito nel capo IX, si ispira all’articolo 12 della legge n. 865 del 1971 (come modificato con le successive leggi del 1974 e del 1977).

Il comma 1 mira ad estendere per quanto è possibile la figura della cessione volontaria, per evidenti intenti deflattivi.

Il comma 2 si raccorda con le precedenti disposizioni sull’entità dell’indennità di esproprio.

Si segnala, però, che l’intento deflattivo è meno raggiungibile a proposito delle aree ‘legittimamente edificate’: poiché attualmente l’indennità è pari al valore venale, non vi è alcun beneficio economico con la conclusione dell’accordo di cessione.

De iure condito, i limiti di intervento del testo unico non consentono una diversa soluzione. Il comma 3 intende evitare le questioni, sorte in dottrina e in giurisprudenza, sulla natura dell’accordo e sulla esperibilità della azione di risoluzione dell’accordo nel caso di inadempimento, con la distinzione tra gli aspetti pubblicistici e quelli attinenti al pagamento della somma dovuta.

L’equiparazione col decreto di esproprio comporta che il terzo che ritenga di avere un diritto sulla indennità possa proporre opposizione alla corte d’appello, mentre chi è stato chiamato a concludere l’accordo può impugnarlo innanzi al giudice amministrativo.

32 Il capo X è dedicato all’istituto della retrocessione e riprende la disciplina degli articoli da 60 a 63 della legge n. 2359 del 1865 (sulla distinzione tra la retrocessione totale e quella parziale, v. Cass., Sez. Un., 8 giugno 1998, n. 5619, che ha dato rilievo all’utilizzazione o meno dell’area, in funzione dell’opera prevista con la dichiarazione di pubblica utilità).

32.1. In chiave innovativa, nel caso di retrocessione totale, l’articolo 46 fissa il termine di dieci anni come lasso di tempo decorso il quale è consentito l’esperimento dell’azione restitutoria innanzi al giudice amministrativo.

32.2. L’articolo 47 disciplina la retrocessione parziale e riporta il contenuto degli articolo 60 e 61 della legge n. 2359 del 1865.

Poiché per la retrocessione parziale occorre la verifica amministrativa sulla perdurante utilità del bene, in relazione alle finalità perseguite con la procedura di esproprio, è stato previsto un procedimento semplificato.

32.3. L’articolo 48 reca disposizioni comuni per la retrocessione totale e per quella parziale.

Il comma 1 disciplina i criteri di computo dell’importo dovuto, in base all’articolo 60 e seguenti della legge n. 2359 del 1865 e dell’articolo 21 della legge n. 865 del 1971.

Esso enuncia il criterio costantemente seguito dalla giurisprudenza, per la quale vi è un ritrasferimento della proprietà con effetti ex nunc, sicché l’indennità va determinata sulla base del criterio già applicato per calcolare dell’indennità d’esproprio, col rilievo delle variazioni del valore dell’area, medio tempore intervenute (Cass, Sez. I, 27 gennaio 1998, n. 1776; Cass. 26 aprile 1979, n. 2046).

Il comma 2 riguarda l’opposizione alla stima, mentre il comma 3 disciplina il diritto di prelazione, già attribuito al Comune dall’articolo 21 della legge n. 865 del 1971.

33. L’articolo 49 è inserito nel capo XI, dedicato all’occupazione temporanea, e riguarda l’occupazione temporanea di aree non destinate ad essere espropriate (ad esempio, quelle occorrenti per collocare i materiali necessari per realizzare l’opera).

Poiché il testo unico non prevede più a regime la figura della occupazione d’urgenza preordinata all’esproprio, l’articolo 49 è riconducibile al testo originario degli articoli 71-73 della legge n. 2359 del 1865.

33.1 L’articolo 50 determina il criterio di computo dell’indennità di occupazione legittima.

La Corte di Cassazione ha elaborato vari criteri (cfr. Sez. Un. 14 luglio 2000, n. 499; Sez. Un., 8 luglio 1996, n. 6223), tra i quali va segnalato quello indicato nel testo, che appare più coerente perché segue un criterio di proporzionalità rispetto a quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio.

34. L’articolo 51 si ispira agli articoli 11, 74, 75 e 76 della legge n. 2359 del 1865.

L’articolo 11 della legge n. 2359 del 1865 prevede la competenza del Capo dello Stato, su proposta del Ministro della difesa, mentre nel comma 1 si attribuisce la competenza al Ministero.

La mancata riproduzione dell’articolo 76 di tale legge dipende dalla disciplina generale dell’articolo 23 sul decreto di esproprio.

Il comma 4 si giustifica perché, a seguito della giurisprudenza della Corte Costituzionale, le servitù militari sono state ridisciplinate dalla legge n. 898 del 1976, anche quanto alla indennità, se dovuta.

Pare opportuno non incidere su tale legge speciale.

35 L’articolo 52, in tema di esproprio di beni culturali, prende atto del superamento (per effetto della legge n. 1039 del 1989 e del testo unico approvato col decreto legislativo n. 490 del 1999) della disciplina già dettata dagli articoli 83 e 84 della legge n. 2359 del 1865, sulla espropriazione dei monumenti storici o di antichità nazionale.

36. L’articolo 53 riproduce il contenuto degli articoli 4, comma 1, e 7, comma 1, della legge n. 205 del 2000, per le parti concernenti la materia espropriativa.

Nel comma 1, rispetto alle previsioni dell’articolo 34 del decreto legislativo n. 80 del 1998, con una disposizione non innovativa si è aggiunto il richiamo agli accordi, sia per evitare i dubbi sorti dalla applicazione dell’articolo 11 della legge n. 241 del 1990, sia perché gli accordi di cessione producono effetti equivalenti ai decreti di espropriazione.

36.1. Con l’articolo 54 sono stati unificati, coordinati e in parte innovati gli articoli 51 della legge n. 2359 del 1865 e 19 e 20 della legge n. 865 del 1971.

La unificazione delle due discipline impone anzitutto di scegliere se estendere la regola del giudizio di opposizione alla stima in due gradi (prevista nella legge n. 2359 del 1865), ovvero quella dell’unico grado (prevista nella legge n. 865 del 1971).

Poiché per la redazione del testo unico è necessario che vi sia una sola regola (in considerazione della ratio unificatrice e di semplificazione), si è scelta la seconda soluzione (pur nella consapevolezza che anche la prima poteva essere seguita).

Infatti, vi è pur sempre una precedente determinazione dell’indennità, o nella sede arbitrale o da parte della commissione competente a quantificare il valore agricolo medio.

E’ disposto che l’opposizione sia proposta alla corte d’appello, nel cui distretto si trova l’immobile espropriato.

I commi 1 e 2 chiariscono che:

a) oggetto dell’impugnazione possono essere non solo le stime peritali, ma anche la liquidazione delle spese di perizia, la nomina dei periti e le operazioni peritali;

b) con l’azione civile può inoltre chiedersi, in caso di espropriazione disposta in mancanza di stima, la diretta determinazione giudiziale dell’indennità;

c) l’azione si propone con la forma dell’atto di citazione;

d) la competenza territoriale spetta alla corte d’appello nel cui distretto si trovano gli immobili occupati o espropriati;

e) per l’azione è previsto un termine dilatorio, successivo alla scadenza del termine di trenta giorni decorrenti dalla comunicazione del deposito della relazione di stima, e un termine perentorio, pari a trenta giorni dalla notifica del decreto di esproprio, ovvero trenta giorni dalla notifica della stima peritale, nell’ipotesi in cui la stima sia successiva al decreto di esproprio;

f) legittimato a opporsi alla stima è anche il promotore dell’espropriazione, nonché ogni terzo che ne abbia interesse, e non solo l’espropriato.

I commi 3 e 4 indicano i soggetti legittimati passivi del giudizio, anche nel caso di concessione o delega.

37. Il titolo quinto prevede le disposizioni finali e transitorie.

37.1 L’articolo 55 riproduce il comma 7 bis dell’articolo 5 bis del decreto legge n. 333 del 1992, che si applica per le occupazioni precedenti al 30 settembre 1996.

37.2. L’articolo 56 riproduce la disciplina transitoria legata all’entrata in vigore della legge n. 359 del 1992.

37.3. L’articolo 57 fissa l’ambito di applicazione delle norme del testo unico in relazione alle procedure in corso.

37.4 L’articolo 58 individua le norme abrogate a seguito della emanazione del testo unico.

P.Q.M.

L’Adunanza Generale del Consiglio di Stato in sede consultiva approva lo schema degli articolati in allegato, riguardanti il decreto legislativo, il regolamento di semplificazione ed il testo unico recante il «Codice dell’espropriazione per pubblica utilità», e ne dispone la trasmissione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Per estratto dal Verbale

IL SEGRETARIO GENERALE

(Giuseppe Barbagallo)

Visto:

IL PRESIDENTE

(Renato Laschena)

 

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